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Una guerriera dal cuore cavo

Autore: Gisella Modica
Testata: Società Italiana delle Letterate
Data: 29 giugno 2013

«Le ragazze hanno un desiderio esplosivo di diventare ciò che vorranno essere utilizzando i loro corpi, il problema è che quei corpi in attesa sono orribilmente ingabbiati dal potere e dal controllo dei media. E’ urgente spezzare le sbarre delle gabbie e avremo bellissime sorprese». Scrive Lorella Zanardo su Venerdì di Repubblica del 25 Maggio.

Il femminismo in verità fin dagli inizi ha agito la sua politica puntando sulla «ecceità» dei corpi sessuati che in quanto «sede di lacerazioni, sintomi, conflitti», di desiderio e di eros, nell’atto di esporsi, di mettersi di mezzo, fanno da intralcio al (bio)potere che li dispone l’uno contro l’altro, li strumentalizza ai propri fini, li controlla, persino li cura.

E’ la funzione guerriera dei corpi – ma non guerresca, costante del pensiero di Angela Putino – troppo spesso accantonata, preferendo la debole, ma di sicuro più includente e rassicurante funzione rappresentativa dentro al corpo istituzionale. Di recente però lo spirito guerriero sembra risorto, rielaborato in chiave artistica postmoderna dalle Femen, tutte giovanissime, altrimenti definite “quarta onda del femminismo” che sono tornate ad usare il corpo come un campo di battaglia, trasformandolo da «superficie di iscrizioni di supplizi e di pene» (Foucault) in superficie di slogan disegnati sulla schiena, sui seni, sul ventre per protestare contro la prostituzione via Internet, contro la centrale di Cernobil, contro il turismo sessuale, le molestie dei professori, la misoginia del cattolicesimo e pure contro Berlusconi. Sul viso invece disegnano ferite di acido contro la violenza nei paesi musulmani. La loro lotta è stata definita “forma unica di espressione civile basata su coraggio, creatività, efficienza e choc”. Novelle “guerriere dell’arte”, potremmo anche definirle, se accettiamo che funzione guerriera è anche saper immaginare altro, distaccarsi dalla realtà per sperimentare idee impreviste.

Come “guerriera dell’arte” preferisce essere chiamata anche Viola Di Grado, 25 anni, (autrice di Settanta acrilico trenta lana, premio Campiello opera prima, 2011) rispondendo durante un intervista sul suo ultimo libro Cuore Cavo, alla domanda «cosa vorresti che si dicesse di te». Solo che la protagonista del libro, Dorotea Giglio, 25 anni pure lei, il corpo preferisce farlo scomparire sottoterra, novella Antigone che si sottrae al potere di Creonte  decidendo di “sottovivere”: «non c’è niente di più soprannaturale di me. Il prefisso sopra indica il superamento di un limite e io non ho superato nessun limite: sono la prova che la morte non è. Io non sopravvivo, sottovivo», scrive Viola Di Grado.

Tutte e tre, Antigone, Dorotea e Viola, come le Femen, sono oltre che giovanissime, «estreme nei comportamenti, non portate per le vie di mezzo, né per i compromessi. Procediamo a occhi sempre aperti attraverso le fiamme, con il rischio di andare a fuoco» confida nell’intervista la scrittrice. Dorotea decide di sottovivere tagliandosi le vene dopo aver indossato il suo abito preferito «quello rosso sbracciato» lo stesso giorno di Amy Winehouse, cantante preferita di Viola Di Grado, insieme a Sinéad O’Connor: entrambe giovanissime guerriere grandi protagoniste del rock, dalle vite esagerate, autodistruttive e romantiche, attraversate a tratti da profonde crisi mistiche.

Dorotea si suicida a venticinque anni “davanti al vuoto della sua vita”, alle 15:29 del 23 luglio 2011, venti minuti prima di quando in realtà si suicida Amy che di anni ne aveva 23. Come Amy e Sinèad, Dorotea Giglio è rifiutata da un padre che non conosce e non amata da una madre depressa, Greta, che la mette al mondo solo per «il buco di un profilattico» e la usa per le sue foto che nessuno compra, facendola scomparire in dissolvenza «nella parete scrostata», col suo obiettivo simile «alla bocca ansiosa di uno squalo». Decide di morire per cominciare a vivere dall’interno «l’amore incondizionato, che vince su tutto, unico limite alla libertà incondizionata, che arriva fino all’osso senza più la dogana della pelle … farsi zerbino dell’intero universo».

Lo stesso tipo di amore «invincibile in battaglia» di Antigone: straripante, incontenibile, eccessivo, impensabile. Quello stesso amore che da viva ha sentito per Lorenzo e da morta sente per Alberto, amore non corrisposto che la farà soffrire come fosse in vita. Lo stesso amore, di tipo protettivo, che da morta prova per la madre alla quale, ora che può attraversare non vista i muri, rimbocca le coperte, si sdraia accanto, assiste ai suoi amplessi e la bacia sulle labbra per succhiare via il veleno: “mi prendevo la sua tristezza e non la sputavo mai, la tenevo dentro mescolata alla mia … ero la sua malattia”. Amore come movimento dello stare fuori di sé e insieme possibilità di trasformazione. Amore “senza oggetto” delle mistiche. Non a caso la citazione in esergo che recita «o nulla sconosciuto! In verità l’anima non può godere di una vista più bella in questo mondo che osservare il proprio nulla e starsene nella sua prigione» è di Angela Foligno, mistica morta nel 1300. Amore che si fa vuoto. Vuoto come la morte definita «una matrioska di stanze vuote»; vuoto come il suo «cuore sfondato ormai secco sotto le mosche». Vuoto come il suo corpo che non la chiude più, si fa cavo e Dorotea, finalmente senza confini, può farsi mondo: «il mio sangue alla base dell’Etna, sotterraneo, arginato dalla roccia. Il mio sangue che spinge da sotto gli steli e le radici delle querce. Raggrumato dentro ogni pianta, prosciugato nella bocca aperta di ogni petunia rossa. Inspirare, adesso, è vento … I miei tessuti, una volta disfatti, vestiranno l’isola intera: un vestito di carne fin dove comincia il mare. I coralli intricati delle mie arterie, me lo ricordo, erano lunghi 96.500 chilometri: collegandoli e girandoli in doppio orneranno la gola dell’intera superficie terrestre. Quando sarò grande sarò il mondo».

Uno stare al mondo all’altezza dei propri desideri, senza sottostare ai confini stabiliti tra il dentro e il fuori, l’impossibile e il reale, e che fa accadere altro, scrive Luisa Muraro in “Il dio delle donne”.

«Volevo abbattere la barriera tra vita e morte, questo noioso tabù occidentale», dice l’autrice nell’intervista: «abbattere questo tabù raccontando con fluidità la vita e poi la morte senza alzare rassicuranti muraglie cinesi. Le persone credono che finire di vivere segni un limite … nessuno ha il coraggio di immaginare l’assenza».

Adesso che è morta e la “realtà è una belva estinta” e non può più farle del male, Dorotea va a fare visita al suo corpo per documentarne sul diario la decomposizione, come una paleontologa, e  scopre che è pieno di organi: “ecco cos’è la bellezza interiore”. L’unica cosa che le manca senza il corpo, la pelle, senza “il mistero del sangue che porta il calore” è il desiderio d’invecchiare: “volevo invecchiare con mia madre  ma non sarebbe mai accaduto … Al posto del desiderio c’è il desiderio del desiderio”.

Funzione guerriera è anche questo: usare il corpo per rinominare il proprio desiderio; è usare il corpo diventato cavo, poroso, vuoto «come una figura vuota, una libera associazione, un album da colorare» per farsi passaggio in altro; è usare parole che «non ci restino dentro, crude e malconce, bistecche avariate … parole carogne, giochi di parole come sono quelle dei morti non ascoltate più dai vivi». Funzione guerriera è opera di disintegrazione del proprio sé e nello spazio vuoto scompaginato dallo scoppio di quella me che credevo di essere, si apre la mia stessa vita 1. Come l’insetto divorato dal fungo, un «sarcofago vuoto» che alla fine si disintegra dall’interno, ma prima di morire corre all’impazzata verso l’alto. «Cosa vuole raggiungere lassù a tutti i costi» si domanda l’autrice. Funzioni rese possibili solo attraverso una mediazione vivente, la fiducia verso un’altra donna, come è  la relazione materna.

Quando infatti il dolore per la perdita di Alberto si rivelerà per Dorotea insopportabile «rimane un cordone che la lega a qualcun altro: è sua madre».

Tornata a casa Dorotea si sdraierà sul letto accanto a lei e «l’abbraccerà con le braccia, il seno, lo stomaco, il sesso le cosce, le gambe, fino a sentire un calore incredibile, la mia materia astratta unirsi con attrito piacevole e violento  ad una realtà complicata di carne .. non c’era più nulla intorno a me perché tutto era dentro, insieme  … ferme e intere fino alla morsa delle ossa, imbevute di sangue, intatte fino al cuore».