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Intervista con Jerome Ferrari, Premio Goncourt 2012

Autore: Diego Zandel
Testata: Gazzetta del Mezzogiorno
Data: 23 ottobre 2013

Vincitore del Premio Goncourt dello scorso anno con “Sermone sulla caduta di Roma”, grande successo anche in Italia per le Edizioni e/o, Jerome Ferrari ritorna nelle librerie italiane con un romanzo scritto precedentemente. Si tratta di “Balco atlantico”, edito sempre da e/o per la traduzione di Alberto Bracci Testasecca. E’ unastoria ambientata in Corsica tra gli anni Ottanta e Novanta intorno alla figura di un indipendentista corso Stéphane Campana, che viene ucciso davanti alla porta della giovane amante. A raccontarne la storia è un antropologo Theodore Moracchini che, frequentando il bar di Marie-Angéle e di sua figlia Virginie (l’amante di Stephane), si troverà alle prese con altri personaggi, in particolare il marocchino Khaled e sua sorella Hayet, immigrati in Corsica, aprendo così il romanzo a risvolti politici. Jerome Ferrari è venuto in Italia a presentare il suo libro. Lo incontriamo a Roma, al prestigioso Centro Saint-Louis di Roma dell’Institut Francais.
Signor Ferrari, del suo romanzo il rapporto tra identità e indipendenza sembra assillare Stephane Ferrari e i suoi compagni, come se la seconda servisse ad affermare la prima, ma è proprio necessario.
Non so quale delle due cose viene prima. Quello che so è che una di queste rivendicazioni non può non poggiare sulla rivendicazione identitaria. Quindi diventa estremamente necessario sul piano politico costruirsi una identità. Preciso che questo non riguarda la Corsica, è una questione di carattere generale. Dal momento in cui uno comincia a porsi l’interrogativo “chi sono io?” ci si trova condannati a risposte caricaturali. A proposito della identità nazionale dei francesi qualche anno fa si è scatenato un dibattito e questo è il problema che interessa me. Diciamo che, poiché questo si osserva in modo chiaro nei movimenti politici, affrontare la questione della identità corsa è stato un punto di attacco.
Perché proprio la Corsica? Nella nota biografica si legge che è nato a Parigi… Ma io sono corso, figlio di corsi, e ho passato tutte le mie vacanze scolastiche in Corsica fin da bambino, tanto da diventare la fonte principale per tutta la mia scrittura.
Nel romanzo ci sono più punti di vista, quello di Stephane Campane, quello di Theodore Moracchini, quello di Khaled, e così via. Lei in chi si riconosce?
Il mio lavoro di romanziere è proprio quello di non promuovere nel mio romanzo un punto di vista che voglia essere superiore agli altri. Anzi, per me si potrebbe definire un errore professionale quello del romanziere che appoggia il punto di vista di uno dei personaggi. E questo lo dico anche da lettore, non solo da scrittore. A me sembra che il romanzo sia uno di quegli spazi in cui il lettore viene considerato un essere intelligente e autonomamente pensante.
Come si lega la Corsica al Balco Atlantico, marocchino?
Il libro l’ho scritto mentre ero in Algeria, dove ho insegnato per due anni. Potevo mettere l’Algeria, ma volevo un maggiore distacco critico. L’occasione me l’ha data un mio amico, insegnate di arabo, nato in un villaggio del Marocco a sud di Tangeri, dove c’è appunto il “Balco atlantico” una passeggiata a mare. Khaled e la sorella li ho fatti venire da lì. E la scelta è stata azzeccata, perché è uno di quei posti da cui i clandestini passano in Europa. Il mio soggiorno in Algeria mi ha dato l’occasione poi per capire come ci siano delle persone che si sentono prigioniere nei loro paesi, cosa della quale noi europei non abbiamo la minima idea. Il mondo non è aperto per tutti quanti.
L’adulto Stephane Campana ha per amante la minorenne Virginie, in un rapporto che sembra ispirato da una sorta di purezza, seppur morbosa. Come è nato tutto ciò?
Questa relazione fa parte del progetto originario del mio romanzo. L’idea era di immaginare un tipo di rapporto tra due persone la cui purezza è tale da diventare al tempo stesso oscena. Mi piace molto che le cose lascino scorgere il loro contrario.