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Nan Aurousseau - Dello stesso autore

Autore: Mirko Zilahy De Gyurgyaokai
Testata: www.yoricklibri.it
Data: 10 maggio 2008

Da poco in libreria per E/O, Dello Stesso autore porta in scena la Parigi più brutale e marginale, le sue aree meno conosciute, le zone escluse dall’immagine culturale che la città più comunemente riserva: una metropoli dei dimenticati, degli abbandonati dal sistema, quella delle banlieue più desolate. Il linguaggio che la racconta non può che essere rappresentativo della bassa realtà che l’affolla: brusco e vigoroso, anche ruvido, con numerose inserzioni del gergo carcerario e della piccola criminalità parigina. Il romanzo è costruito sugli avventurosi accadimenti che animano l’autobiografia dell’autore, Nan Aurousseau, la cui nota personale a fine libro, sebbene scarna, risulta fortemente cattivante ed evocativa: «Madre lavandaia, padre meccanico manovratore, cinque fratelli, impara il mestiere di idraulico alla fine di sette anni di detenzione per rapina, durante i quali divora libri e inizia a scrivere».



Il protagonista è Joss Meredith, autore del libro di successo Rimorsi di un comico viaggiatore, giallo d’ambiente criminale che, come accade per Aurousseau, si sviluppa in direzione autobiografica. Joss è alle prese con la sua attesa seconda prova e con un’attraente e pericolosissima vicina con la pistola – di cui si legge nella quarta di copertina - che lo coinvolge, malgrado la proclamata innocenza dello stesso, in una vicenda di sequestro e violenza sessuale e per la quale si ritrova a fare i conti con la legge. Morgane ha infatti completamente scordato gli avvenimenti dei giorni del rapimento e dell’abuso, le restano solo i segni psicologici e sul corpo: «Quei cinque giorni dimenticati la ossessionavano come cinque fantasmi liquidi e inafferrabili che le scivolavano via continuamente tra le dita. Tra l’istante in cui l’uomo le aveva chiesto l’ora e quello in cui si era svegliata nel bosco, non c’era nulla». Messo in mezzo a una vicenda più grande di lui dall’ombroso tenente Waulk, Joss è accusato e messo in carcere prima per detenzione illegale d’arma da fuoco poi proprio per lo stupro di Morgane. La vicenda si risolverà in maniera imprevedibile e con tanto di ricostruzione, ma soltanto nelle pagine finali.

Al limite del “genere” Pulp per ciò che riguarda il ricorso a componenti di facile presa - sesso e violenza sono presenti nella trama e nei linguaggi – e per lo stile volutamente aggressivo e asciutto; se ne distingue però per un suo andamento ragionato e per la tessitura calibrata. La definizione di “noir vissuto”, che segue quello di “noir mediterraneo” ad accompagnare la scrittura di Massimo Carlotto, pare in definitiva indovinata. 
V’è infatti molto del vissuto (romanzato) dell’autore: dalle esperienze malavitose alla vita carceraria alla passione lì coltivata per la lettura prima e la scrittura poi. Il tutto sistemato in un coeso ed intrigante ordito, benché di semplice sviluppo. Ad arricchire una struttura abbastanza classica le ambientazioni, la lingua, il vocabolario tecnico della polizia, della medicina legale e della “mala”, alcuni divertenti particolari piccanti, cui s’inserisce uno sguardo ironico di pessimismo beffardo: «nella vita la cosa importante è non aspettarsi mai niente. Bisogna tenere duro e basta, tenere dietro alla curva lenta del tempo, non lasciarla mai». Quanto detto è vissuto in presa diretta, il che aggiunge a volte un leggero tocco di surrealtà alle situazioni in essere; ostaggio della vicina di casa nella sua macchina, Joss coglie la possibilità di liberarsi e al contempo s’impegna a commentare: «Teneva sempre la pistola in mano, ma le si erano aperte le dita. Me ne sono impossessato senza ragionare, perché i vincenti non ragionano. I vincenti colpiscono, prendono e vanno via».
C’è poi un continuo confronto, sempre in chiave brillante, coi grandi della tradizione gialla: «Sulle donne cominciavo a saperla lunga. Ero ancora molto lontano da Simenon per quantità, non ero mica uno fissato coi numeri, ma ne avevo frequentate parecchie da vicino e mi ero fatto un’idea».

All’analisi psicologica della forma mentis delinquente, e della vittima, si sovrappone spesso la denuncia di un sistema ingiusto: non quello del crimine, ma della giustizia che vive di pregiudizi, una delazione delle insidie cui ci si imbatte nel fare i conti con l’autorità costituita. 
Forte l’accusa alla realtà carceraria, a proposito della quale leggiamo di ingiustizie, violenze e dello stato di sopravvivenza che vi regna: tutte «queste cose non si inventano. La realtà è sempre più squallida della finzione, più inattesa nelle sue pieghe fetide».
Ecco un brano che rendel’idea tanto del penetrante discorso sociale - contro i pregiudizi che si subiscono nell’ambito della “giustizia” - quanto della prosa vivace di Nan Aurousseau: «Il gene del crimine non esiste. Quello che esiste invece è un gran casino virologico illuminato di sbieco dalla luna, una specie di contagio infettivo di nevrosi familiari storicamente accoppiate con un mucchio di letame socioculturale ipercriminogeno. Vista da vicino, è questa la storia del crimine». Un’analisi del reato, delle sue radici e ragioni, vista appunto dall’interno e che diviene denuncia socioculturale e accusa diretta alle istituzioni, non senza allusioni alle problematiche dell’attualità francese: «Le condizioni della detenzione erano terribilmente peggiorate […] e nemmeno l’estrazione sociale dei detenuti era migliorata. C’erano solo poveracci pieni zeppi di problemi, imbottiti di miseria socioculturale e psicologica, tutti ragazzi venuti dai ghetti nei quali, a conti fatti, era stata ammassata la manodopera importata per spezzare i sindacati operai. Quando la Repubblica abbandona i propri figli, non c’è da stupirsi se ridiventano selvaggi».
Il libro di Nan Aurousseau resta comunque molto divertente, per il tono leggero che la prosa svelta e provocatoria offre, per l’angolazione ironica che le vicende giudiziarie, carcerarie ed erotiche di Joss Meredith assumono, e infine per la trattazione del materiale in gioco: da vero noir, vissuto.