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Spesso uno scrittore è costretto a scavare sotto la realtà: in un'osteria invece è tutto lì, a portata di mano, fresco e intatto, già pronto da essere usato

Autore: Veronica Fantini
Testata: Feedbooks
Data: 2 febbraio 2014

Anche nei luoghi apparentemente meno ospitali la vita brulica, e vi sono piccoli grovigli di emozioni che si manifestano solo a chi ha la pazienza di sedersi al tavolo di un’osteria, ordinare uno spritz e darsi un’occhiata intorno…

Piccola osteria senza parole è un microcosmo collocato in una campagna dai tratti anonimi, una zona di transizione da una geografia all’altra apparentemente insignificante: si ha quasi la percezione che sia un luogo sospeso in un’altra dimensione, nonostante la presenza di toponimi reali che la circondano e che ne rendono possibile la collocazione. È un dato di fatto, inoltre, che l’area di confine tra Veneto e Friuli è poco nota agli italiani stessi: è un effetto voluto?

E’ un effetto voluto per l’esigenza di raccontare un mondo ai margini, dove non accade mai nulla e dove tutto è possibile. Ma è anche un elemento di puro realismo: i lunghi tratti di campagna fra un centro abitato e l’altro sembrano davvero in uno stato di sospensione e dentro certi bar di minuscoli paesi sprofondati fra i campi di granturco del Veneto o del Friuli ci si può sentire lontani da tutto, in un altro mondo. Quando ho cominciato a pensare a questa storia la prima necessità che ho avvertito è stata soprattutto quella di descrivere un’atmosfera.

La vicenda, oltre ad essere ambientata in una specie di non-luogo, se non fosse per la precisa indicazione dell’anno, il 1994, e la scansione cronologica data dalle partite del Mondiale di calcio che si giocò quell’estate, avrebbe anche i toni di una sorta di atemporalità, la cui sensazione in realtà permane. È errato ipotizzarlo?

Non è errato nel senso che, in un posto in cui tutto è fermo e ci pensa eventualmente un calendario calcistico a spezzare le ore, la stessa storia si potrebbe ripetere uguale anche se spostata nel tempo. Nel 1994 a Scovazze è arrivato un meridionale, oggi potrebbe essere un extracomunitario, fra vent’anni un extraterrestre: eppure tutto potrebbe andare allo stesso modo. Non è un caso che Silvana Rasutti aspetti i marziani nel suo giardino, fra le piante di pomodoro, per essere salvata. Arriva invece Salvatore Maria Tempesta, ma il risultato finale non cambia.

Il Punto Gilda è il bar che funge da palcoscenico principale per tutti i personaggi del libro, i quali possiedono tutti caratteristiche bizzarre, piccole manie e atteggiamenti che vengono accettati come tali, quando in altri contesti sarebbero considerati vere e proprie stranezze da evitare. I luoghi di ritrovo tipici della provincia (in questo caso un’osteria) possono essere considerati come baluardi della tolleranza in cui la frequentazione quotidiana porta ad abituarsi alle differenze?

Gli avventori del Punto Gilda sono tutti difettati. L’Avvocato è piccolo, veste griffato falso e ha un ingombrante naso aquilino; Malattia è secco, pallido, pelato e con tutte le ossa storte; Carnera non parla e tiene un occhio sempre chiuso; Borìn corre per la campagna con una valigia di metallo in pugno; la Gilda quando non capisce le cose sputa nel lavabo. E così via per tutti gli altri. Li ho disegnati in questo modo perché volevo che le loro manie e imperfezioni contrastassero con l’omologazione e la perfezione cui la società tende. In televisione sono tutti bellissimi, senza difetti di alcun genere. Qui è l’esatto contrario ma non ci si fa troppo caso. Al massimo ci si stampa sopra una battuta o una bestemmia ma poi si tira dritto insieme, perché c’è un giro di carte da finire, perché si ha altro a cui pensare o perché in fondo si sa bene che, in un modo o nell’altro, si è tutti un po’ sbagliati. Credo sia questo tipo di consapevolezza a rendere le osterie di provincia dei posti così veri.

La tranquillità del paesino di Scovazze viene sconvolta dall’arrivo di Tempesta, un “terrone” che armato del suo paroliere darà una svolta a molte vite. Recentemente è tornato alla ribalta, soprattutto al cinema, il confronto tra  italiani del Nord e italiani del Sud: passano gli anni e rimane uno dei temi più fertili, lei cosa ne pensa?

Ho cercato di raccontare questo confronto con una prospettiva il più possibile originale, in particolare concentrandomi sulla differenza nell’uso delle parole. La Piccola osteria è senza parole fino a quando non arriva il meridionale: lui le parole le porta con sé fisicamente, sotto forma di un gioco che le contiene, il Paroliere, e che entrerà nella vita degli avventori del bar. Ma gli abitanti di Scovazze le parole le avevano già tutte dentro di loro: come nel gioco si trattava solo di mescolare e tirarle fuori. L’arrivo dello straniero in paese crea questo mescolarsi di anime e sentimenti, genera un cambiamento forte, a dimostrazione che ogni diversità, se la si sa cogliere, può rappresentare una grande ricchezza. E non occorre necessariamente un solido strato di cultura per riuscirci, come non occorre per giocare al Paroliere: basta la curiosità, la voglia di provarci. La vita di tutti gli abitanti del paese cambia in proporzione al loro livello di curiosità verso il meridionale. La curiosità che vince la diffidenza in virtù di un altruismo congenito, spontaneo che da queste parti è un marchio di fabbrica.

“Entrai nel bar in un pomeriggio assolato: […] mi sedetti in un angolo, con la scusa di bere piano, e ci trascorsi l’estate, a osservare e prendere appunti.” Un bar può essere di grande ispirazione per uno scrittore, è esattamente così che è nata Piccola osteria senza parole?

Idealmente sono seduto in quell’angolo di bar da anni. Ogni volta che ho messo il naso dentro un’osteria veneta o friulana ho rubato un pezzo di vita, una frase, un aneddoto, un’immagine. Spesso uno scrittore è costretto a scavare sotto la realtà: in un’osteria invece è tutto lì, a portata di mano, fresco e intatto, già pronto da essere usato. Ad un certo punto si è trattato solo di mettere insieme questa materia nel modo giusto, ma l’ho fatto “lontano” dall’osteria: la presenza dell’autore nel testo è solo un artificio letterario che mi è piaciuto adottare. Mi sembrava potesse dare un maggiore effetto di realismo alla storia o forse semplicemente non ho resistito all’idea di immaginarmi seduto in quell’angolo accanto a certi personaggi. Sarà per questo che, a distanza di tempo, li sento tutti così vicini.

Nonostante i campi di grano e i capannoni industriali, non lontano da questo paesino immaginario, si tiene ogni anno Pordenonelegge, uno tra i  festival letterari più visitati d’Italia, dedicato agli autori. Pensa che il panorama culturale locale sia stato influenzato positivamente da questa manifestazione?

Sono un appassionato frequentatore di Pordenonelegge che trovo sia uno dei Festival letterari italiani più carichi di atmosfera. La sua influenza non può che essere positiva nel territorio e l’ampia risposta di pubblico è evidente (lo dimostrano le grandi masse che affollano alcuni incontri). Certo però, a Scovazze, Pordenonelegge non sanno nemmeno che esiste. Ho più di un amico, potenziale frequentatore della Piccola osteria senza parole, a cui un giorno ho detto: “Sai, ho scritto un libro”. Mi ha risposto: “Ah, interessante. Io però non leggo”. E anche per andare a scoprire Pordenone che legge occorre almeno un po’ di curiosità.