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Un paese sull'orlo della libertà

Autore: Guido Caldiron
Testata: il manifesto
Data: 13 maggio 2014

Lo sguardo di due donne sulla sto­ria ira­niana. Due gene­ra­zioni, due vite, due forme di esi­lio a con­fronto per rac­con­tare la memo­ria del grande paese asia­tico, ma anche per imma­gi­nare un futuro di libertà. In L’attrice di Tehe­ran (Edi­zioni e/o, pp. 300, euro 19,50), Nahal Taja­dod prende spunto dalla vicenda dell’attrice Gol­shif­teh Fara­hani, «ban­dita» dalle auto­rità della Repub­blica Isla­mica dopo aver par­te­ci­pato nel 2008 al film di Rid­ley Scott Nes­suna verità e aver posato a seno nudo nel 2012 per una cam­pa­gna con­tro gli abusi sulle donne, per rac­con­tare l’incontro tra due diverse visioni dell’Iran.

Taja­dod, nata nel 1960, figlia di intel­let­tuali, suo padre par­te­cipò alla Rivo­lu­zione costi­tu­zio­nale del 1906, ha lasciato la Tehe­ran dello Scià Reza Pahlevi nel 1977 per stu­diare lin­gue e reli­gioni orien­tali a Parigi, è un’esperta inter­na­zio­nale del pen­siero di Mani e del sufi­smo di Rumi, e ha all’attivo un primo romanzo, Pas­sa­porto all’iraniana, pub­bli­cato nel 2008 anche nel nostro paese. Fara­hani, la sua inter­lo­cu­trice che nel libro assume l’identità di Sheyda, è nata nel 1979, l’anno della Rivo­lu­zione Isla­mica, è diven­tata attrice cono­scendo tutte le dif­fi­coltà e le limi­ta­zioni che il regime degli Aya­tol­lah pone all’espressione arti­stica, in par­ti­co­lare delle donne.

Dal loro incon­tro è nato una sorta di dia­rio ricco di emo­zioni e colpi di scena, a un tempo intimo e corale, mai ras­se­gnato anche di fronte all’imminenza di scelte deci­sive per la vita delle pro­ta­go­ni­ste. Un libro che rico­strui­sce la sto­ria dell’Iran, la vita quo­ti­diana nella Tehe­ran di oggi come in quella degli anni Set­tanta, ma che soprat­tutto rivolge uno sguardo com­plice quanto alla pos­si­bi­lità di un avve­nire diverso per le donne iraniane.

Nahal Taja­dod ha pre­sen­tato L’attrice di Tehe­ran al Salone del libro di Torino dome­nica 11 mag­gio insieme alla stu­diosa Farian Sabahi.

«L’attrice di Tehe­ran» è soprat­tutto un romanzo sull’esilio. Anche se pro­ta­go­ni­ste ne sono due forme di esi­lio tra loro molto lon­tane. Solo un’apparente contraddizione?

Qual­cosa di più: un modo per riflet­tere su di sé men­tre si osserva la realtà ira­niana. In effetti, men­tre io ho ancora la pos­si­bi­lità di recarmi in Iran, Sheyda è stata ban­dita dal paese e rischia di essere arre­stata e pro­ces­sata per oltrag­gio alla reli­gione se ci torna. Per­ciò, mal­grado ci siamo cono­sciute a Parigi e abbiamo lavo­rato insieme a que­sto libro in Fran­cia, vale a dire nel paese che abbiamo scelto entrambe per il nostro esi­lio, non posso dire che la nostra situa­zione sia uguale. Lei ormai parla solo di ciò che ricorda di un paese che non la rico­no­sce più e non è più dispo­sto ad acco­glierla, men­tre io rifletto su ciò che ho visto cam­biare sotto i miei occhi, ma da lon­tano, in una realtà che però non mi è più pre­clusa. Entrambe ci misu­riamo con una distanza, affet­tiva, emo­tiva, cul­tu­rale, ma la misura del nostro esi­lio dall’Iran non potrebbe essere più lon­tana l’una dall’altra.

È ricom­po­nendo ideal­mente le vostre dif­fe­renti espe­rienze che ha preso corpo il libro.…

Non ne era­vamo con­sa­pe­voli all’inizio, ma credo che le cose siano andate almeno in parte così. Io e Shyeda appar­te­niamo a due gene­ra­zioni diverse; abbiamo vis­suto un’infanzia e una gio­vi­nezza molto dif­fe­renti, ma dal nostro incon­tro e dal nostro lavoro comune è nato un ritratto con­vin­cente del paese che entrambe, mal­grado tutto, amiamo pro­fon­da­mente. Il fatto che io sia nata nel 1960 e abbia lasciato l’Iran nel 1977 quando era ancora domi­nato dallo Scià e che da allora non abbia più vis­suto sta­bil­mente a Tehe­ran, fa di me una sorta di testi­mone di un paese che non c’è più.

Sheyda, al con­tra­rio, è nata nel 1979, e non ha cono­sciuto che il governo della Repub­blica isla­mica fon­data da Kho­meini. Eppure, fin dal nostro primo incon­tro è acca­duto qual­cosa di molto strano. Io che mi aspet­tavo di farmi rac­con­tare da lei l’Iran che non ho mai cono­sciuto, ho finito per tro­varmi invece nel ruolo inat­teso del nar­ra­tore: sia per­ché le par­lavo di un’epoca che il regime degli Aya­tol­lah ha cer­cato di can­cel­lare con ogni mezzo, sia per­ché, potendo ancora entrare nel paese, ho fonti di prima mano anche su ciò che sta acca­dendo adesso. Più che un dia­logo, il nostro è diven­tato una sorta di pro­cesso crea­tivo vivente, l’una ha appreso dall’altra e insieme abbiamo rico­struito i fram­menti di una foto­gra­fia di Tehe­ran che la Sto­ria aveva ridotto in mille pezzi.

Sheyda potrebbe essere sua figlia, eppure nel libro lei la para­gona a sua madre o addi­rit­tura a sua nonna, spie­gando come que­sta ragazza abbia dovuto misu­rarsi in Iran con una società domi­nata total­mente dagli uomini. La sua espe­rienza è stata diversa?

Llei ha l’età per poter essere mia figlia, ma la vita che ha con­dotto nella Repub­blica Isla­mica è più simile a quella che ave­vano vis­suto le donne ira­niane di parec­chie gene­ra­zioni fa: più che mia madre, addi­rit­tura mia nonna o la mia bisnonna. Dopo la rivo­lu­zione del 1979, la vio­lenta isla­miz­za­zione della società impo­sta dai seguaci di Kho­meini ha fatto rie­mer­gere ele­menti che erano stati supe­rati da tempo. Un solo esem­pio può bastare, quello dell’uso del cosid­detto «velo isla­mico». Fin­ché ho vis­suto a Tehe­ran non ho mai dovuto indos­sarlo e nem­meno mia madre lo usava. Il padre dell’ultimo Scià, aveva già abo­lito l’obbligo del velo nel 1936, ma le auto­rità reli­giose lo hanno rista­bi­lito dopo il 1979.

Così, il para­dosso è che se cerco con la memo­ria l’immagine di donne velate nella mia fami­glia, devo tor­nare all’epoca di mia nonna o di sua madre. Men­tre invece nella vita di Sheyda, come per tutte le donne ira­niane di oggi, l’esperienza, obbli­ga­to­ria, del velo è qual­cosa di quo­ti­diano. Eppure, il domi­nio maschile, impo­sto attra­verso la reli­gione, è oggi uno dei mag­giori pro­blemi che attra­versa l’Iran. Pro­prio per que­sto la chiave di un cam­bia­mento reale della situa­zione è nelle mani di gio­vani donne come Sheyda.

Dalle sue parole si potrebbe con­clu­dere che l’epoca dello Scià, dove il benes­sere e la moder­nità erano riser­vati ad un’élite estre­ma­mente cir­co­scritta, fosse da pre­fe­rire a quando acca­duto in Iran dopo il 1979. Nel romanzo, anche ispi­ran­dosi ai suoi studi sulla cul­tura e la reli­gione pre-islamiche, lei arriva però a con­clu­sioni diverse sul futuro del paese. Cosa potrà accadere?

Per par­lare del futuro del mio paese fac­cio rife­ri­mento ai miei studi sul mani­chei­smo, che al con­tra­rio di quanto si è soliti cre­dere soste­neva la coe­si­stenza, nella Sto­ria come nella vita dei sin­goli, di fasi di «luce» e di «tenebra».

Penso che in Iran all’epoca dello Scià si sia posto il pro­blema della sepa­ra­zione tra la società tra­di­zio­nale, la reli­gione e lo Stato. Lo si è fatto però senza demo­cra­zia e in modo auto­ri­ta­rio. La rivo­lu­zione del 1979 ha uti­liz­zato il males­sere di una gran parte della popo­la­zione per ripor­tare al cen­tro delle isti­tu­zioni le norme isla­mi­che. Il risul­tato è stato un altro regime auto­ri­ta­rio, ma anche lo svi­luppo, per la prima volta nel paese, di una vera società civile. Per­ciò oggi è in seno alla stessa Repub­blica Isla­mica che sono nati gli anti­corpi, e penso soprat­tutto ai gio­vani, agli intel­let­tuali e alle donne, per il supe­ra­mento del regime. Ci vorrà del tempo, ma il futuro di un Iran libero si sta già costruendo attra­verso l’esperienza e le bat­ta­glie di donne come Sheyda.