Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Vienna, le note di Mozart spente dagli stivali nazisti

Autore: Luigi Forte
Testata: La Stampa - Tuttolibri
Data: 14 giugno 2014

Ernst Lothar non smise mai di sognare l’amatissima Vienna. Anche quando nel 1939 si rifugiò negli Stati Uniti diventando cittadino americano. La sua nostalgia aveva una forte carica morale: vagheggiava un futuro di libertà e di democrazia per quell’Austria inquinata dal nazismo di cui nel suo grande romanzo pubblicato in inglese nel 1944, La melodia di Vienna (che le edizioni e/o presentano ora nella traduzione di Marina Bistolfi), fece un ritratto drammatico e appassionante.
Nato nel 1890 a Brno nella Repubblica Ceca, l’ebreo Lothar era cresciuto in realtà nel capitale dell’Impero. Funzionario ministeriale per un certo periodo, s’era poi dedicato alla passione di sempre, la letteratura, scrivendo poesie, saggi e romanzi e venendo in contatto, grazie all’amico Stefan Zweig, con alcuni protagonisti della cultura del tempo, fra cui Musil e Roth. Fu uno dei promotori del Festival di Salisburgo, regista e direttore del Burgtheater dove propose spesso autori, non ultimo Grillparzer, attenti a una seria riflessione sullo spirito austriaco.
Ci voleva in effetti tutto il suo talento teatrale per inscenare l’apocalisse di un’intera epoca dominata dalla figura icona di Francesco Giuseppe e travolta da guerre e fascismi. Saga familiare e affresco storico che abbraccia cinquant’anni di vicende europee, dalla belle époque a l l ’ Anschluss hitleriano del 1938, La melodia di Vienna rivisita il mito asburgico con occhio critico e disincantato, una buona dose di ironia e la perizia del vero affabulatore che trasforma le parole in vita vissuta.
L’occhio di Lothar non si allontana dal centro di Vienna, da quel primo rione dove sorge, poco dietro il duomo di S. Stefano, la casa della famiglia Alt, costruttori di pianoforti fin dal Settecento. Il fondatore, il vecchio Christoph, aveva ancora sentito suonare Mozart su uno dei suoi strumenti. Ma dal cuore della città la sua scrittura registra il battito sempre più incalzante del mondo: la guerra, la morte dell’imperatore, l’avanzata dei nazisti, degli uomini in stivali, come dirà l’ebreo I.J.Singer nel suo splendido romanzo La famiglia Karnowski (Adelphi, 2013) che s’impadronivano, là come a Berlino, delle piazze e delle strade.
Solo lentamente in queste pagine l’uragano della storia travolge il fascino, la leggerezza, lo scintillio di un’epoca che combatte contro il tempo, celando dietro tradizioni e rituali il proprio tramonto. Attraverso tre generazioni Lothar condensa nei suoi personaggi l’atmosfera di quei decenni. Si resta incantati di fronte alla figura della vecchia zia Sophie, tanto elegante quanto burbera e inflessibile, alle prese con il nipote Franz deciso a sposare la giovane ebrea Henriette che i membri più autorevoli di casa Art di spiccata vocazione alto-borghese con molti agganci a corte, vedono come il malocchio. E tra i conservatori di famiglia ci sono anche lo zio Otto Eberhard, magistrato influente, e lo stesso Franz, suo fratello, che guarda con sospetto ogni conato di liberalismo. Anche a lui la guerra darà una dura lezione come al figlio Hans, scoraggiato dal-l’ipocrisia degli adulti in una casa che non «conosce gioia e soffoca la beatitudine».
Accanto al giovane la madre Henriette, vera protagonista di questo romanzo che non è solo la versione viennese, popolare e sentimentale, dei Buddenbrooks di Th. Mann, ma per dirla con una certa disinvoltura, il Via col vento del Novecento austriaco. Certo Henriette non è Rossella O’Hara, e tuttavia anche lei insegue una felicità senza futuro fra amori veri e fasulli. Anche lei riconosce troppo tardi l’affetto del marito Franz che non ha mai amato e spesso tradito. Henriette è l’altra immagine di un paese spensierato e civettuolo, affamato di vita, ma incapace di affrontare il proprio tragico destino.
Anche quando è in agguato il kitsch, come nei brevi flash sull’arciduca Rodolfo, innamorato di Henriette, sull’incontro di quest’ultima con l’ imperatore o sul giovane Hitler, povero in canna, respinto alla scuola di artigianato artistico, Lothar si salva con una scrittura accattivante e mai enfatica. Ed è convincente anche nei momenti più drammatici, quando Hermann, da antisemita convinto, avvelena Selma, la giovane moglie ebrea del fratello Hans, per poi essere condannato, o quando Henriette viene strangolata da alcuni giovani della Gestapo.
La vocazione epica dello scrittore incalza il tempo con una curiosità che lascia tracce ovunque: brevi ritratti, sagome indimenticabili, saloni e boudoir e un chiacchiericcio
che per un attimo, come nel breve giro di un valzer, rilancia l’immagine festosa e spensierata di una mitica stagione. Ma quella nostalgia si scioglie alla fine in un messaggio di speranza e di pace espresso da Hans Alt, erede di una famiglia disintegrata e cittadino di un paese allo sfascio, che si congeda dal lettore con parole affidate ad una trasmittente illegale: «tutti diversi, tutti per uno e uno per tutti: quella era l’idea austriaca».