"Ormai niente ha più importanza. Eccetto questo sapore che inseguo nei recessi della memoria e che, furente per un tradimento che io nemmeno ricordo, mi resiste e ostinatamente mi sfugge."
Quando ho preso in mano L'eleganza del riccio non avevo mai letto nulla di questa autrice francese. Un suo libro in effetti era già stato pubblicato, ma era passato in sordina. Si trattava di Una golosità e, quando ho scritto un commento sul romanzo che l'ha resa celebre in Italia, era ancora in catalogo, tanto che, se andate a rivedere la recensione troverete un link a una pagina che ora non esiste più.
Sì, perché quell'edizione, esaurita, è stata sostituita con questa, tutta nuova, che ha anche un titolo più accattivante, Estasi culinarie.
Comunque, stavo dicendo che in ogni caso quel romanzo non l'avevo letto, come la maggior parte dei lettori che hanno così amato il successivo lavoro di Muriel Barbery.
È stata perciò una piacevole sorpresa rivedere le scale del palazzo signorile che già conoscevo, quello di rue de Grenelle, incontrare nuovamente in queste pagine Renée, la portinaia, e la famiglia Arthens (quella del quarto piano).
Bisogna senz'altro sottolineare che si tratta del primo capitolo di questa storia, il primo romanzo di Muriel, quello con cui, giustamente, la casa editrice e/o la presentava al pubblico italiano. Quello che tutti avremmo dovuto leggere prima. Pazienza, ci rifacciamo adesso.
È indubbiamente di un romanzo meno d'ambiente e più incentrato sulla figura e sulla memoria di un protagonista unico. Un uomo di sessantotto anni.
È il maggior critico gastronomico del mondo (non posso evitare di immaginarlo con il volto di Robert Morley grande portagonista del film di Ted Kotcheff Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d'europa), il vate della gastronomia internazionale, ha vissuto a lungo in questo palazzo e ora sta morendo.
La sua vita, piena, egocentrica, sontuosa sta per terminare, ma questo evento non crea disperazione nel suo intimo. Il pensiero che più lo tormenta non è la fine, ma il ricordo di un indefinito, mitico sapore perduto nel tempo, nascosto nel cuore, un sapore d'infanzia che desidererebbe ritrovare più di qualsiasi altra delizia gastronomica.
Circondato dall'odio dei figli, dalla pietà e il rimpianto inspiegabili di una moglie trascurata e tradita da sempre, dall'amore dell'unico nipote stimato, Paul, monsieur Arthens cerca di ripescare nella memoria quella sensazione prima di morire, riesumando gli effluvi del suo animo bambino, i primi passi della sua vocazione, ripercorrendo la sua vita in prima persona o attraverso i ricordi di chi l'ha conosciuto.
"E se, in fin dei conti, a sfidarmi beffardamente fosse qualcosa di insipido?" - si domanda con ansia - "Come l'orrenda madeleine di Proust, quella stramberia pasticciera di un lugubre pomeriggio scialbo, sbriciolata in pezzi spugnosi dentro un cucchiaio di tisana - somma offesa -, magari anche il mio ricordo si associa a una pietanza mediocre, che di prezioso ha solo l'emozione che rievoca: un'emozione che potrebbe svelarmi un dono di vivere finora incompreso".
Sa raccontare molto bene Muriel Barbery quello scherzo della memoria che tutti viviamo, soprattutto con il passare degli anni, che ci fa dimenticare molte cose o ricordarne altre come in effetti non sono mai state. Sa raccontare lo struggimento di un attimo e come nella semplicità, nella misura, spesso si nasconda la felicità vera.
E mi vengono in mente le bellissime parole di una canzone, Sempre. Un testo di Mario Castellacci che abbiamo sentito cantare da Gabriella Ferri e nessuno poteva farlo meglio di lei:
Ognuno è un cantastoria / tante facce nella memoria / tanto di tutto, tanto di niente / le parole di tanta gente. / Tanto buio, tanto colore / tanta noia, tanto amore / tante sciocchezze, tante passioni / tanto silenzio, tante canzoni.