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Joan Didion, Democracy

Autore: Silvia Pellizzari
Testata: Finzioni magazine
Data: 13 ottobre 2014

Avete presente The Leftovers?
È una serie tv creata da Damien Lindelof (insieme a Tom Perrotta, che è anche l’autore del romanzo da cui è stata tratta la serie, Svaniti nel nulla, edito E/O), che poi sarebbe quel gran genio che ha creato e sceneggiato qualcosa come Lost.
Sono stata e sono una grande amante di Lost e finisce sempre che mi ritrovo a fare degli aperitivi con gente a cui Lost ha fatto schifo e inizio ad avere la tachicardia, perdere la pazienza e a gesticolare spiegando le mie ragioni e rischiando un infarto.
Ho iniziato a guardare The Leftovers principalmente solo per il nome del papà. È come quando esce un nuovo romanzo di un autore che hai amato tanto: potrebbe parlare anche delle pratiche di accoppiamento del krill: lo compreresti lo stesso.

Una cosa che ho imparato, guardando Lost, è che gli sceneggiatori ti fregano. Ti buttano lì una serie di cosette da niente, in mezzo al marasma di altre cose a cui presti attenzione. E solo dopo un po’ di puntate, o dopo aver frequentato siti e forum per malati, scopri che quei dettagli erano il biglietto da visita di quello che veniva dopo. Era tutto già sotto i tuoi occhi, solo che non ci avevi fatto caso.
Quando ho iniziato a guardare The Leftovers ero preparata, conoscevo un pochino il modo di tirarti dentro le cose, dentro la storia, e ci ho fatto caso, senza togliermi il piacere della puntata.

Ecco, mi è successa la stessa cosa leggendo Democracy, il quarto romanzo di Joan Didion, uscito nel 1984 e pubblicato qualche mese fa per E/O. Il primo romanzo della Didion che ho letto è Diglielo da parte mia, a mio avviso un vero capolavoro. Solo arrivata alla fine del romanzo sono riuscita a comporre il puzzle fatto dei singoli pezzettini. Fino a poco dalla fine non si riuscivano a mettere insieme, erano lì, orfani, divisi per colore; si intravedeva il senso ma non si riusciva a comporre il paesaggio completo.
Anche in questo caso non mi sono fatta fregare, con le letture successive dei suoi scritti, e lo stesso ho fatto con Democracy. Le pagine sono sparse di piccoli e meno piccoli indizi, frasi de-contestualizzate che sai ti serviranno, e questa volta lo sai, te ne accorgi, ne sorridi e te le gusti.

Democracy potrebbe essere la storia di un triangolo. Al centro c’è l’affascinante Inez Victor, da un lato suo marito Harry Victor, politico in corsa per le presidenziali americane, dall’altro Jack Lovett, l’altro, forse un trafficante di armi, forse un agente della CIA, non ci è ben chiaro e va bene così. 
Invece no, è molto di più. Ambientato negli anni 70, è la storia di un amore che dura tutta la vita, un amore silenzioso che non si spegne, della guerra fredda, della caduta di una famiglia potente, della disfatta americana in Vietnam e di una donna irrequieta che ha tutto, ma decide di prendere in mano la sua vita e andare da un’altra parte. 
Sullo sfondo c’è la politica internazionale (il libro è ambientato a New York, Honolulu e in tantissime località del sud est asiatico), in primo piano la storia di certe vite che si intrecciano, di una famiglia che si scopre molto più fragile di quello che credeva e di una democrazia, quella americana, che prova a esportare altrove un modello che in realtà fa acqua da tutte le parti e mostra tutte le sue incoerenze e i suoi punti deboli.

Il punto di vista non è mai lo stesso, continua a cambiare, come in quei film polizieschi in cui qualcuno prende in mano un binocolo e improvvisamente l’inquadratura è una soggettiva. 
Quello che non cambia è la voce narrante, affidata a una Joan Didion – non si sa quanto reale o meno – che riporta la storia che ricorda. 
Ed eccoci qui, si ritorna a casa, in quello stile chiamato New journalism che ha reso grandissima l’autrice in quegli anni in cui la scrittura, la narrazione, sono radicalmente cambiate grazie a questo nuovo modo di raccontare. Fatti veri, ma romanzati. Reportage di cronache scritti da penne abilissime.
Nei libri della Didion, poi, fa sempre caldo. Quando leggo un suo libro mi viene voglia di farmi una limonata dissetante e sventolare un giornale davanti alla mia faccia. Sento l’umidità che mi appiccica i vestiti al corpo, anche se è ottobre; sento le zanzare. Perché la Didion è così: ti porta dentro le cose, ti parla come se sapessi già una parte della storia. Non ti prende per mano, ti scaraventa in un posto e non puoi fare altro che guardarti attorno e cercare le persone che sta raccontando, unire con una penna tutti gli indizi che ti mette a disposizione. 

Ci si affeziona, soprattutto. Senza motivi ben precisi, data la distanza che Joan Didion mette sempre tra sé e i personaggi. Eppure lo si fa, si prova compassione, fastidio, si prendono certe parti piuttosto che altre. Come alla fine succede poi sempre nella vita.