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È crudele la favola nera

Autore: Claudio Gorlier
Testata: La Stampa - Tuttolibri
Data: 15 novembre 2008

Africa Un paesaggio che sembra inghiottire la storia: tra conflitti civili e l’aspro rapporto con i bianchi

Anche mentre imperversa la tragedia della guerra civile, la realtà può ancora far lievitare favole in Africa, dove il paesaggio sembra inghiottire la storia almeno come la intendiamo noi europei: lo tocchiamo con mano, ad esempio, in Sud Africa, e parlo per esperienza personale. Così, nessuna meraviglia se ci imbattiamo in Toloki, protagonista emblematico del romanzo di Zakes Mda, Si può morire in tanti modi!. Mda, scrittore, drammaturgo, pittore sudafricano, lo pubblicò nel 1995, e dunque sull’onda della fine dell’apartheid, appunto padroneggiando da maestro favola, storia, paesaggio, in un lucido specchio, per il quale detto francamente, il punto esclamativo, nella pur efficace traduzione di Claudia Valeria Letizia, non mi sembra del tutto necessario. Toloki esercita la singolare professione di Dolente professionista: giunto al termine delle sue peregrinazioni in una città portuale, si reca a pagamento nei cimiteri a piangere morti, noti e ignoti. Ha cominciato da ragazzino a cantare in cori apparentemente sereni, ma la realtà non era serena affatto, tanto che spesso quei ragazzini si trasformavano in terroristi contro la feroce oppressione dei bianchi, pronti a mandare le loro truppe nei villaggi, lasciando morte e distruzione. Sono le Giovani tigri, e non basteranno le spietate repressioni ad annientarli, a costringerli alla resa.

Terminato quasi per miracolo, come accade nelle favole, l’apartheid, la storia raccontata da Mda si snoda, e lascia il posto all’idillio, ove il brutto e maleodorante Toloki, pur continuando la sua singolare professione, sarà protagonista di un idillio con l’affascinante Noria, la quale già da bimba incantava con la sua risata, vera e propria magica creatura dalla bellezza incontaminata pur nella sua concreta sensualità. Ma il romanzo si popola di tutta una serie di personaggi – insisto – realistici e favolosi: l’influente capo Nefolovhodwe; una vecchia strega, il giovane militante Napu; il mercante Shadrack, che si salva quasi miracolosamente dopo essere stato gravemente ferito dai bianchi. Mda, nato nel 1948, con frequenti soggiorni negli Stati Uniti dove ha insegnato, ci appare come il supremo maestro di cerimonie di un universo che l’Occidente, ovvero noi, ha sommariamente etichettato come «esotico», rivelando non di rado, un interesse e magari una simpatia di matrice inesorabilmente paternalistica. I canoni del realismo, della cosiddetta verosimiglianza, vengono per così dire frantumati, privi di senso: penso alla donna che rimane incinta magari per una ventina e più di mesi, nel segno di una fantastica esperienza. Gli episodi drammatici, persino sanguinosi, paiono fondersi nella leggenda quotidiana; l’ironia esplode addirittura nel comico, bruciando come le capanne divorate da un incendio, le distinzioni tra i generi costituiti.

Spostiamoci dal Sud Africa nella confinante Namibia, Paese esso pure di spazi quasi illimitati e di immacolate costiere. È stata una colonia tedesca, gestita dalla dinastia dei Göring. La via principale della sua capitale, Windohek, si chiama Independence Street ma gli anziani - ve lo garantisco sempre per esperienza personale – ancora parlano di Kaiser Strasse. Qui Larry Kaplanski, giovane americano del Midwest, protagonista di Un solo tipo di vento di Peter Orner, si reca a insegnare volontario in una piccola scuola rurale. Qui un paesaggio umano e geografico non dissimile da quello raccontato da Mda si trova affidato a un racconto di un bianco che giunge da un territorio geografico assolutamente remoto. Bene: sussistono le coincidenze: un ambiente povero, tormentato dalla siccità, pervaso di consuetudini e di contraddizioni antiche, si apre dinanzi agli occhi di un autentico pellegrino: «Chi ha progettato un meccanismo così crudele come il ricordo?». Anche qui, tra vicende spesso tragicomiche, tra contraddizioni quasi improbabili, emerge una suprema figura femminile, Mavala Shikongo, ex guerrigliera, giovane mamma fieramente libera, di cui innamorarsi quasi in una scommessa ambigua.

Orner manovra la sua narrativa – magistralmente tradtta da Riccardo Duranti – ricorrendo a una dimensione intessuta di impressioni dirette, di riflessioni, di annotazioni penetranti, senza alcuna certezza, quasi interrogandosi. Ma attenzione: a differenza di Mda qui è un occidentale, e quindi la sua visione si trova a essere, volente o nolente, filtrata, condizionata dal suo essere bianco. Questo è il nostro rischio, e la nostra scommessa. Dal sud Africa alla Namibia e magari ora a Obama, ve lo dice chi da cinquant’anni or sono ha scritto una storia dei neri (allora «negri») degli Stati Uniti, evitiamo il facile abbraccio interessato. Per forza di cose stiamo con Orner, non con Mda: impariamo bene la canzone, cerchiamo di cogliere le differenze prima di unirci al coro.