Il rischio c’era a tutti gli effetti, di confondere le acque e la sensibilità dei lettori con un prodotto ibrido e discutibile sulla scia di certi vecchi b-movies, con Ercole contro Maciste o Django che sfida Sartana. Ma il grande Massimo Carlotto sa giocare le sue carte, lui che è riuscito nell’impresa di trasformare il noir mediterraneo in terreno di confronto sociale e denuncia dei malesseri scatenati dal connubio tra delinquenza e malaffare politico. Carlotto non ha mai cambiato genere perché in fondo ha inventato un genere, rimanendone tuttora l’unico, concreto rappresentante mentre altri suoi colleghi hanno scelto vie sempre più alternative al thriller. Ma far incrociare la rotta del suo Alligatore – Marco Buratti, investigatore senza licenza – con il malefico genio criminale di Giorgio Pellegrini – uno dei cattivi più azzeccati del noir non solo italiano – poteva costituire comunque il rischio segnalato in apertura.
Ogni giustificazione, in questi casi, rischia l’artificio, mina le più solide credibilità.
La corsa a ostacoli di Carlotto tra le insidie del male e la parte in ombra delle psicologie criminali non poteva tuttavia mancare questa scommessa: in fondo l’Alligatore naviga a vista nella melma della malavita, in fondo Pellegrini è un monumento alla perversione mascherata da un aspetto fisico addirittura piacevole. In fondo la scenografia è la stessa: un Veneto in tempo di crisi, negozi e aziende con le serrande abbassate, un Buratti che torna in Italia dopo una dolorosa resa dei conti libanese in seguito alla quale lascia tristemente la combriccola Sylvie, la donna violata e seviziata del suo amico Beniamino Rossini.
Il riassunto è d’obbligo, anche per Carlotto, ma quasi subito la vicenda si attualizza nella ricerca di un professore scomparso – Guido Di Lello amante di una ricca ereditiera svizzera che contatta Buratti per scoprire la verità. In questi casi il dubbio aleggia, perché l’Alligatore teme di rimanere invischiato in una storia dolente di cui non vuole farsi carico, ma la sua sensibilità e il suo senso dell’onore glielo impongono, tanto più che, a dargli man forte in maniera quasi casuale, compare in scena anche un terzo personaggio conosciuto ai lettori di Carlotto, il poliziotto Giulio Campagna.
E la verità viene a galla quasi subito, in una Padova in cui – per puro caso – la fotografia dello sfigato professore mostrata a due belle donne in un ristorante stellato scatena le gelide perplessità del titolare, un uomo solare, affascinante e pieno di sé: Giorgio Pellegrini. Ecco, l’incontro c’è stato, senza forzature e con vigile abilità strutturale. Il resto è guerra, una guerra senza ostaggi da tenere in vita, perché se Buratti e i suoi compari – Rossini e il tenerone Max la Memoria – sono impegnati ad assolvere all’incarico, per Pellegrini ogni pericolo in vista diventa l’occasione per scatenare le sue più algide efferatezze, insieme alla volontà di fare piazza pulita di ogni possibile ostacolo, tant’è che il primo a soccombere – ma i lettori stiano tranquilli è proprio Max la Memoria, vittima di un agguato ad opera di certi poliziotti corrotti al soldo del bel Giorgio, come lo definisce ironicamente Buratti.
La traccia del romanzo – La banda degli amanti – è tutto sommato quasi un pretesto per mettere in contatto due grossi personaggi del noir italiano: ci auguriamo di vedere presto un seguito, perché troppi dettagli rimangono in sospeso, troppe porte aperte, e questo caso di ricatti e morti facili sembra l’opportunità – tirando le fila del passato di entrambi i protagonisti, ma aggiungiamoci anche il buon Giulio Campagna – per dare vita a una spietata corsa attraverso il male, che potrebbe davvero riservare nuove sorprese nel futuro narrativo di «big» Massimo Carlotto.