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Piccola rivincita sul Web invadente

Autore: Giulio D’Antona
Testata: L'Inkiesta
Data: 13 aprile 2015


Ogni mattina, all’apertura della posta dedico qualche minuto, ormai senza più troppa attenzione, a cancellare una decina di email promozionali provenienti da siti che ho consultato forse qualche anno fa, di sfuggita, o gruppi dei quali non faccio più parte. E non mi azzardo mai ad aprire la cartella dello spam.
Offerte di lavoro che andrebbero bene per un universitario fuori sede ma che in fondo se le leggessi suonerebbero ancora allettanti, soluzioni immobiliari dall’aria sinistra, nuove idee per romanzi che nessuno scriverà mai, ma che popoleranno in eterno un forum nascosto tra le pieghe del Web accessibile solo digitando in sequenza ordinata le parole “scrittore”, “voglio”, “fare”, “lo”. I motivi per cui non mi decido a cancellare le sottoscrizioni sono un paio: pigrizia e affetto.
La pigrizia deriva dal fatto che non esiste un modo rapido per uscirne, visto che i dati di accesso — ammesso che io ne abbia mai avuti — sono andati smarriti in anni di oblio telematico e che dovrei probabilmente scrivere a un indirizzo di assistenza sfuggente e insidioso, perdendo molto più tempo di quanto ne dedico a far scorrere le varie email fuori dallo schermo del cellulare ogni mattina e ritrovandomi dentro un’altra decina di liste indesiderate.
L’affetto deriva dal fatto che ormai conosco alcuni dei falsi mittenti per nome e so che, se anche nessuno mi scrivesse più, potrei sempre contare sulle petizioni di Rachel Patel di Avaaz e sulle offerte di risparmio di Mariella Guarino, di Soldifacili.com. Nessun principe africano in pericolo di vita, nessun parente sconosciuto sull’orlo della bancarotta in Nevada, solo qualche amico per un paio di minuti ogni mattina, pronto a darmi il buongiorno prima di scivolare via.
In Mi chiamavano piccolo fallimento (Guanda, 2014, traduzione di Katia Bagnoli), Gary Shteyngart racconta dell’esperienza di suo padre, da poco immigrato a Queens dalla Russia, con una delle più frastornanti e iconiche campagne postali del secolo scorso: la lettera da un milione di dollari. «Lei e la Sua famiglia siete stati selezionati come fortunati vincitori di un milione di dollari, da pagarsi al ricevimento della ricevuta firmata e compilata nei dettagli», è il testo dell’annuncio in cartolina che ogni americano, residente o occasionale, ha ricevuto almeno una volta nella vita. Quello che si finiva per sottoscrivere, una volta compilato il modulo e pagato una «modesta tassa di anticipo», variava a seconda delle occasioni. Per la famiglia Shteyngart, inizialmente elettrizzata dall’accoglienza nel Paese delle opportunità, si era trattato di un abbonamento a qualche rivista di settore. Impossibile da cancellare senza rimetterci ben più di quanto era costato.
cop-mor-picInternet ha portato l’invadenza ben oltre i limiti imposti dall’arrancare fino alla cassetta delle lettere e buttare nel cestino la posta indesiderata. Internet ci arriva sotto il naso e spesso opera per vie talmente misteriose che nessuno — proprio nessuno — può ritenersi esente dallo spam o dalla pubblicità mirata. AdSense, Pop-up luccicanti e schizofrenici e email d’assalto sono insidie talmente comuni da aver abbandonato da un pezzo la condizione di pericoli e aver abbracciato quella di “normali fastidi quotidiani”, imponendo l’evidenza che la nostra vita sia fatta anche di momenti di selezione delle email. Chi sta dietro a tutto questo, non è dato da sapere e nel quadro complessivo della faccenda non è nemmeno troppo importante. Ci si possono costruire delle storie sopra, si possono inventare i retroscena e ambientarli in un territorio tanto sconfinato e oscuro da occupare la totalità dello spazio virtuale. Conosco almeno uno scrittore che ci si è buttato dentro a capofitto e ne è uscito con una vicenda piuttosto divertente.
Claudio Morici ha scritto un romanzo intitolato Confessioni di uno spammer (e/o, 2015) e costruito su un flusso di email unilaterale. Da un ex-spammer pentito, arroccato in un piccolo appartamento di Londra tra junk food e coinquilini logorroici all’occorrenza, verso un pubblico di sedici milioni di persone. Gli stessi sedici milioni che per anni anni hanno subito il fuoco martellante delle email di Giuseppe — questo il nome del protagonista, falso naturalmente, come tutti quelli che ha usato nella sua carriera — e che adesso sono elevati a pubblico involontario, ma non passivo, della confessione completa: dalle origini all’epilogo. Morici si toglie qualche soddisfazione. Prima di tutto quella di inventare un volto e una professione dietro un mondo fatto di generatori di testo e traduttori poco allenati. Dà a Giuseppe un’abilità, quella di saper simulare il simulato, costruire a tavolino un prodotto che sembri uno strafalcione ma che è, in fondo, un’opera di altissima precisione, dove ogni errore di battitura è calcolato, ogni false friend è calibrato sul peso totale della frase e sul suo significato. Tra l’incomprensibile e l’immediatamente chiaro. Non molto tempo fa mi è capitato di leggere, su Vice, la testimonianza di un grafico che si occupa degli Ads dei siti porno. «Deve sembrare amatoriale — diceva nell’intervista di Ash Berdebes —, deve essere più autentico possibile e gli errori grammaticali, le foto sgranate e la generale bruttezza del riquadro, fanno al caso». Stessa cosa dicasi, probabilmente, per i messaggi d’aiuto dell’erede al trono dello Zambia. Morici lo sa e spinge sull’acceleratore, costruendo su queste nozioni un’arte minuziosa e affascinante.

La seconda soddisfazione è quella di mettere in scena una piccola rivincita sull’intrusività del Web, trasformandolo nel palcoscenico della sua stessa disfatta e nella rimonta del suo abitante più modesto: il fruitore silenzioso. Giuseppe dà ai suoi sedici milioni quello che tutti vorremmo ogni giorno, un capro espiatorio. Qualcuno a cui dire come ci sentiamo ogni volta che riceviamo della posta inutile, che non possiamo rimandare indietro né protestare, non possiamo scaricare in mano né fare ingoiare a nessuno, perché non c’è nessuno che se ne prenda la responsabilità materiale — mi leggi, Rachel Patel? Vediamoci e ti prometto che non mi arrabbierò. Inoltre, Morici incarna l’origine di tutti i mali di Internet in una delle forme di vita più sole e travagliate dell’universo: l’italiano a Londra. Così lo trasforma nel perfetto Malaussène, un essere umano talmente abituato alla solitudine e alle angherie da passarci attraverso nudo e rimanere alla fine scarnificato, coperto di nient’altro che la propria frustrazione. Impossibile da incolpare e impossibile da compatire, soprattutto quando, verso le ultime pagine del romanzo, lo vediamo nella sua tragica interezza e si prepara all’ultimo, grande, scarto narrativo. «Sei talmente solo, qui, che ogni tanto torni a casa e non trovi nemmeno un’email di spam», dice a un certo punto. Morici mi capisce, Morici mi è vicino. Morici è uno di noi, ma è stato in grado di esorcizzare la sua condizione di vittima mettendosi dalla parte del carnefice plausibile.
La verità è che quello che mi salva dal rimanere soffocato dallo spam e che ci esime tutti dal dover prendere contromisure concrete, è proprio il fatto che i nostri aguzzini non hanno un volto, un nome o una personalità. Cancellarli non ci costa niente e non ci obbliga a combatterli. Se tutte le insidie fossero così facili da evitare, se bastasse spuntare una casella e cliccare un bottone, probabilmente vivremmo in un mondo di pace. Molto più soli, ma in un mondo di pace.

http://www.linkiesta.it/confessioni-di-uno-spammer-claudio-morici-recensione