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Etgar Keret

Autore: Fabio Donalisio
Testata: Blow up
Data: 15 febbraio 2009

Da sempre i racconti in Italia non vanno. È opinione diffusa di (quasi) tutti gli addetti ai lavori. Nonostante Hemingway. Nonostante Carver. Pochissimi pubblicano racconti, e magari tentano di spacciare il libro come romanzo. Non so dare una reale spiegazione di questo strano fenomeno. Ma so che questo libro, questa raccolta di racconti appunto, è una piccola bomba. E che Etgar Keret è un grande scrittore. Israeliano. Con tutto il bagaglio di non neutralità che questo semplice aggettivo ha il destino ladro di portarsi dietro. Da qualunque parte si scelga di osservare. Ma senza una reale possibilità di NON osservare. Scrivo della violenza in cui sono cresciuto – dice Keret in un’intervista. In un posto dove, per tre anni della propria vita, ogni diciottenne vive una realtà in cui può uccidere o vedere gente ammazzata di fianco a lui. Potrebbe quindi fare cose che forse gli americani non farebbero. Non sono stato nei territori occupati, ma i ragazzi che ci sono stati sanno che se bussi a una porta e non ti aprono, la sfondi a calci. Poi torni a casa e suoni la chitarra, leggi Nietsche e diventi un bravo dentista. Ma lo farai ancora. Una volta che hai oltrepassato la linea, è molto difficile tornare indietro. Quando la tua ragazza non vorrà parlarti e sbarrerà la porta, tu saprai ancora come sfondarla a calci. Ecco i racconti. Quarantatrè schegge. Intrise di cattiveria, cinismo, violenza. Ma anche di una salutare dose di surrealità e ironia. Come un romanzo di formazione spappolato da una mina in particelle elementari. Asciutto, rapido, affilato. Che però stringe al cuore un fagotto (se si riesce a forzare la durezza della presa) di sconcertante tenerezza. Quella di un ragazzino costretto a guardare in un mondo di merda. Quella malinconia così maledetta (e quella comicità così intransigente) dei grandi narratori ebrei(vedi Malamud). Si ride, quindi. Si sorride, si ghigna, si picchia, si incassa. Si riflette, spesso. E sì, si piange pure. Qua e là. Senza una parola di troppo. E qualche porta sfondata.