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Uno scrittore ti salverà

Autore: Giordano Tedoldi
Testata: Rivista Studio
Data: 12 ottobre 2015
URL: http://www.rivistastudio.com/standard/uno-scrittore-ti-salvera/

Quando ho ascoltato la delegata dell’Accademia svedese annunciare che il premio per la letteratura 2015 andava a Svetlana Aleksievic, «for her polyphonic writings, a monument to suffering and courage in our time», ho pensato che avevano un certo talento per dare motivazioni plastiche, gli accademici. Fossero tutte così le bandelle e le quarte, almeno le mie. Suffering and courage: è lo spirito del tempo, è lo schema del millennio apocalittico, del mondo che sta cedendo, dell’uomo sempre più regredito allo stadio di natura, dello scontro di civiltà, delle città in mano ai tentacoli delle mafie, e della morale, laica e religiosa, che è, come i Cenobiti di Hellraiser, «angels for some, demons for others».

Siamo tornati manichei, o forse lo siamo sempre stati e sempre lo saremo: i cattolici romani e Sant’Agostino si erano sbagliati. Si pensa che manicheismo voglia dire separazione netta dei buoni e dei cattivi: errato, tutti gli uomini, nel manicheismo, sono impastati di materia e spirito, tenebra e luce, queste sì in netta opposizione. È una distinzione metafisica, non individuale. Ed è in buona approssimazione la visione dominante in quella forma di ideologia abusiva che è l’arte letteraria: la potremmo chiamare letteratura eroica, perché è così che oggi l’antica metafisica torna, annunciata da eroi anelanti alla Luce, che cantano lodi a libri di altri eroi, che scrivono di martiri, in cui non si muore mai ma si agonizza, e non si è mai uccisi da un infarto a letto ma divorati da guerriglieri stupratori e cannibali (i quali solo nel migliore dei casi non obbligano a loro volta le vittime a nutrirsi delle carni dei loro parenti sterminati), oppure contaminati da radiazioni che ti fanno cacare feci mucose e sanguinolente 25-30 volte al giorno.

Sono esempi presi da Congo (Feltrinelli) di David van Reybrouck e Preghiera per Chernobyl di Svetlana Aleksievic (e/o, tradotto da Sergio Rapetti, il traduttore dei Racconti di Kolyma di Salamov). Centrale nella letteratura eroica, come per tutte le eresie estreme, è l’ossessione per il corpo. Le torture mentali, dalle piccole nevrosi alle croci psichiche, sono, invece, turbamenti piccolo-borghesi senza valore. Una ragazza schizofrenica – uso il termine con cautela, sapendo che non tutti lo approvano – che passa per tutti i cerchi dell’inferno poiché è un inferno puramente psichico, non ha alcun interesse per uno scrittore eroico. Gli interesserà semmai come si è coperta di sfoghi la sua pelle a causa dell’azione degli psicofarmaci e come è stata fatta a pezzi dopo l’impatto con il convoglio sotto il quale si è uccisa, o alla fine della caduta dal settimo piano. La letteratura eroica è una letteratura di superficie, e una certa dimestichezza con la body-art fa parte dei suoi ferri del mestiere; anzi, si potrebbe persino coniare la seguente regola: se una letteratura è di superficie, cioè epidermico-corporale, se descrive il corpo come in una lezione di anatomia ai tempi di Harvey, è eroica. Questa ossessione fisica e sensoriale vale innanzitutto per i corpi nelle loro opere, ma si riflette e origina dal loro proprio corpo di autori. Gli scrittori eroici hanno un cervello, non una mente. Avvertono emozioni a partire dallo stomaco, e parlano solo di ciò che hanno visto, annusato, tastato, e quanto più la percezione è restituita nella sua pura nudità, senza confusioni intellettuali, e quanto più è rivoltante, tanto più è eroica. Sono i frenologi della narrativa.

In ultima istanza ciò che interessa la letteratura eroica è il destino – di dannazione – dei corpi. E loro stessi, gli scrittori, incarnano volontariamente o involontariamente, assumendolo con l’esilio, la reclusione scortata, la tragicità del ruolo di vittime predestinate. Lo scrittore eroico si presenta come una medaglia: su una faccia ha una storia di sopravvivenza all’orrore, sull’altra un teschio e un memento mori, et in Arcadia ego. Una bivalenza riassunta dalla circostanza che i corpi fino all’ultimo, fino al Calvario, tentano la resistenza codificata nel loro destino genetico. Ecco acquistare eccezionale rilievo l’atto di coraggio, l’azione esemplare che può essere imitata nella vita, non sulla pagina (ma che verrà imitata anche sulla pagina). Ecco la ricerca battagliera non di molli lettori di romanzi, ma di militanti che letto, anzi, vissuto il libro eroico, si applichino a seguirne l’insegnamento, a imitare le prove di sofferenza e coraggio, a scolpire anche loro monumenti alle virtù, per “dare voce” ai dannati colpiti da quegli orribili castighi voluti, per procura, da Stalin o da un boss del narcotraffico, ma in realtà da un fato tragico e imperscrutabile che approfitta della semplice potenzialità dei corpi di essere straziati.

Di fronte a questa disperata lotta tra Luce e Tenebre, i parti della letteratura, protesta Roberto Saviano, sono «acquerelli della fantasia». Perché si badi: la letteratura eroica non è una truffa, non è un brutto sogno. Ciò di cui parla è reale, e persino la questione di quanta fedeltà, quante ricerche sul campo, quanta onestà deontologica venga dispiegata rispetto a quel reale, è questione di lana caprina, influente solo per la credibilità degli autori, che ci tengono in maniera inversamente proporzionale alla qualità dei loro libri. Come potrebbe essere una truffa parlare delle sofferenze dei deportati di Kolyma? Dei contaminati di Chernobyl? Del sangue del nemico bevuto in Congo? Come potrebbe rivelarsi solo la costruzione di un’ossessione fittizia allo scopo di vendere milioni di copie o vincere il Nobel? A dispetto di quanti sospettano strumentalizzazioni, va detto che l’orrore non è mai un mezzo. E infatti un altro principio della letteratura eroica, dopo quello sulla sua superficialità, è: non si può mai esagerare troppo quando si scrive dell’orrore. L’orrore è illimitato, è un abisso spaziale lovecraftiano di cui non si raggiunge mai il fondo. Il fiuto del grande scrittore eroico sta nell’identificare l’orrore, e poi narrarlo con tutta l’enfasi, l’espansione, la terribilità che l’orrore stesso contempla e giustifica (Salamov, che è sempre misurato, quasi classico nei suoi mezzi, viola la regola e non rientra nella categoria: per lui il problema, da artista superiore quale fu, è usare solo il necessario per dire l’orrore, non una parola di più).

Naturalmente, non essendo (consapevolmente) un metafisico, perché si prende cura di questo mondo, lo scrittore eroico non ricorre a allegorie fantastiche, o a simbolismi: accumula fatti, cita inchieste, e ricorre continuamente a paragoni smisurati che tradiscono la fantasia repressa del romanziere, il cui termine di riferimento è, immancabilmente, una sublime catastrofe: «Nella Seconda guerra mondiale, i nazisti distrussero 619 villaggi in Bielorussia, insieme con i loro abitanti. In seguito alla pioggia radioattiva causata da Chernobyl, la Bielorussia ha perso 485 villaggi e insediamenti. Di questi, 70 sono stati sepolti sottoterra da squadre di pulizia conosciute come liquidatori», scrive la Aleksievic in Preghiera per Chernobyl. Ma chi sono qui i nazisti? Anzi, che c’entrano i nazisti? Il paragone aiuta in qualche modo a capire la vastità del fenomeno o, solo, lo intensifica drammaticamente? E chi sono le squadre sinistramente chiamate «i liquidatori»? Sono uomini o mutanti? Dal punto di vista dello scrittore eroico, quesiti del genere possono dare luogo solo a obiezioni irrilevanti. Quello che conta è creare, in violazione di una descrizione neutra e oggettiva dello stato di cose, uno scenario di guerra dove l’unica categoria sia quella schmittiana dell’Amico-Nemico, che, con la superficialità, l’illimitatezza intrinseca dell’orrore, è il terzo caposaldo della letteratura eroica. In Preghiera per Chernobyl, tutti i contaminati e i loro parenti sono Amici, tutte le autorità, comprese le direzioni degli ospedali, sono Nemici telepaticamente controllati dal Cremlino. Gli amici sono massacrati ma sono i salvati, i nemici massacrano ma sono i reprobi. Il dialogo, sia pure mortalmente e inutilmente sofistico, è degradato coerentemente nell’opposizione radicale: si vive – o meglio, si scrive e si legge – sotto il cielo bronzeo di una lotta perenne per la vita e per la morte, in cui anche la polifonia della Aleksievic mette in scena voci che hanno tutte, nella diversità apparente dei ruoli e dei vissuti, l’intonazione uniforme del salmista. La polifonia si rivela monodia: la voce dell’eroismo.

«L’arte ha fallito nel comprendere molte cose delle persone», ha dichiarato la Aleksievic. Ma l’arte non ha mai fallito nel voler essere arte, e nel lasciare al tempo il giudizio.