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Ho letto “Ragazzi di zinco” di Svetlana Aleksievič

Autore: Riccardo Caldara
Testata: Riccardo Caldara's blog
Data: 3 novembre 2015
URL: http://www.riccardocaldara.net/?p=10584

Di che colore è il grido? Che sapore ha? E di che colore è il sangue? In ospedale è rosso, grigio sulla sabbia asciutta, turchino sulla roccia verso sera, quando non è più vivo… Avevo il libro in casa da tempo (insieme all’altro, Preghiera per Černobyl’). Questa volta quando hanno assegnato il Nobel per la letteratura non sono stato preso alla sprovvista e l’ho letto subito. Di Svetlana Aleksievič ora si sa tutto grazie al premio dell’Accademia di Svezia. Giornalista e poi scrittrice bielorussa, perseguitata in patria dal regime del presidente Aleksandr Lukašenko, si è occupata come cronista di varie tragedie che hanno sconvolto il mondo. Degli stessi temi trattano i suoi libri. Uno è l’Afghanistan con l’occupazione da parte dell’Unione Sovietica (1979-1988) e tutto quello che ha comportato in termini di perdite di vite umane e di mutilazioni. Scrive Svetlana nel 1986, al settimo anno di guerra: Di fronte alla sofferenza ognuno di noi ha una certa riserva di difese fisiche e morali che lo proteggono. Le mie erano esaurite. Il libro – a parte un prologo e un epilogo – è una lunga compilation di interviste, registrate e poi trascritte, a reduci della guerra, quasi sempre mutilati o comunque fiaccati nello spirito, a vedove, a orfani, a genitori che hanno visto cadere i figli in un conflitto senza senso. Svetlana Aleksievič lascia parlare i testimoni di quelle vicende e raccoglie confidenze che hanno procurato all’autrice stessa accuse di disfattismo da parte dell’ormai cadente potere sovietico. “Perché vuole costringermi a ricordare? Non sono neanche più riuscito a indossare i miei jeans e le mie camicie di prima della guerra, perché erano ormai gli abiti di un altro, di una persona ormai estranea, anche se mia madre mi assicurava che avevano conservato il mio odore”. Peggio di tornare a casa dentro una bara di zinco c’è soltanto ritornare amputati. Un ex-addetto ai mortai vagheggia una grande parata sulla Piazza Rossa, una sfilata di tutti i portatori di protesi dell’Afghanistan: “Quelli come me insomma… Che hanno avuto entrambe le gambe amputate sopra il ginocchio… Fosse stato sotto il ginocchio… Che fortuna! Sarei stato un uomo felice… Invidio quelli che hanno conservato le ginocchia...” I racconti si susseguono angoscianti. Al centro c’è sempre l’indottrinamento del regime verso i giovani, un milione di ragazzi e ragazze entusiasticamente partiti per sostenere “la grande causa patriottica e internazionalista”. Tragiche parole d’ordine che oggi fanno sorridere: “vigilanza contro gli intrighi dell’imperialismo”, “sostegno della giusta lotta dei popoli per la libertà e l’indipendenza”, “lotta contro le forze della reazione e dell’oscurantismo”. E’ solo poco più di un quarto di secolo fa. I reduci, i loro parenti, i parenti dei caduti dovevano mantenere il segreto per questioni di stato onde evitare guai seri. Chi ha combattutto veramente questa guerra, in prima linea? Le madri. L’hanno fatta loro questa guerra. Svetlana Aleksievič si occupa di questi, non dei morti tra i dušman, come venivano chiamati gli afghani, e neppure menziona il sostegno dato dagli Stati Uniti, Gran Bretagna, Cina, India ai mujaheddin sotto forma di armamenti, logistica, rifornimenti. Epperò, c’è anche l’Italia, con il cosiddetto ‘Made in Italy’. Scrive un’infermiera: “Ho appreso qui che la mina più terribile è l’italiana. Dopo, ci vuole un secchio per raccogliere quel che resta di un uomo”. Di che essere orgogliosi! Chissà se Renzi lo è oppure se hanno smesso di costruirle? “Non ho più né braccia né gambe… Quando mi sveglio la mattina non so chi sono: un uomo o un animale? Ogni tanto mi verrebbe da abbaiare o miagolare. Stringo i denti…”. E poi cosa resta? E’ stata solo un’avventura brežneviana? Un errore? Intanto un’intera generazione è stata buttata via. Libro tremendo, come un pugno nello stomaco! “Non voglio neanche sentire parlare di errore politico! Non voglio sapere niente! Se è stato un errore, allora restituitemi le gambe…”.