Una rapina finita in tragedia nel Nord Est, la soluzione apparentemente semplice (l’invasione di zingari e migranti che minaccia la vita degli onesti italiani) cavalcata da politica e opinione pubblica e una vittima, Luigina, di cui tutti sembrano dimenticarsi. Un caso che si svela ben presto nient’altro che una matrioska del cazzo.
Nelle ambiguità di questa storia dura, ancorata all’attualità (anzi saldata all’attualità, se pensiamo alla vicenda di Vaprio d’Adda del mese scorso), con la consueta decisione ed i consueti tormenti, si muovono l’Alligatore, Beniamino Rossini e Max “la memoria”. Uomini liberi, ma dal cuore criminale. Ma Carlotto, in stato di grazia, non racconta solamente. Condivide. Fa in modo che, esattamente all’unisono con i tre personaggi, il lettore possa abbandonarsi – di colpo – ad atmosfere morbide ed avvolgenti. Gli scorci fumosi di un piccolo club, le movenze sensuali di una donna di Jazz, o l’abitacolo di una vecchia Skoda. Atmosfere ovattate e rassicuranti, pur nella loro precarietà. Capaci di accarezzare il cuore, ma non di smussare gli spigoli (né dei protagonisti, né di chi legge).
Poi il Blues, onnipresente. La “musica del diavolo” usata come stordente antidoto alla realtà. A quella disperata promiscuità tra avidità, assenza di scrupoli e menefreghismo che spinge a qualsiasi abominio in nome di tutto l’oro del mondo.
E infine l’epilogo. Di cui non parlerò per una ferma presa di posizione anti-spoiler. Ma che spinge a pensare, e a sperare, di dover tornare presto in libreria.