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Con uno sguardo diverso

Autore: Anna Chiarloni
Testata: L'indice
Data: 15 febbraio 2009

La raccolta di racconti ha segnato nel 2005 il passaggio di Christa Wolf dalla casa editrice Hanser a Suhrkamp. Nell’originale i testi sono nove ma giustamente le edizioni e/o hanno ignorato Nagelprobe ( Prova del fuoco), di scrittura troppo calata nel linguaggio idiomatico e perciò quasi intraducibile. Del resto anche le Associazioni in azzurro, distese nelle varianti del ventaglio cromatico, appaiono come un piccolo divertissement letterario. Caratteristico invece dell’autoanalisi wolfiana è Nella pietra. Come ragiona il cervello invischiato nel “fango” della narcosi? In sala operatoria, “pezzo di carne sulle gambe del macellaio”, le gambe impietrite dall’epidurale, emergono ricordi e citazioni, frammenti mitogici e figure familiari. Una sorta di scrittura automatica, mossa da una grafica in cui si staglia lo stampatello, voce prescrittivi e rassicurante del chirurgo, mentre la paziente – beata pianificazione tedesca! – sente Mozart in cuffia “a volume regolabile”.

I tre racconti di ambiente statunitense sono correlati con il titolo. Diverso appare il mondo della multiculturale Los Angeles, e lo sguardo della scrittrice europea coglie fotogrammi di un chiassoso party elettorale per Bush, individua nella folla i russi immigrati, plaude lungo l’oceano di Santa Monica al jogging delle innocenti magliette sudate con sopra scritto “ Do you like me?”. E a quella sorprendente ingenuità la sua risposta “non può che essere sì!” – ma nel farsi di una cronaca a tratti solare irrompe per contro la memoria tedesca, la “traccia del dolore” di speranze e utopie perdute. Sono gli anni successivi alla riunificazione, Wolf è ospite del prestigioso Getty Center e, in questa prosa documentaria e rammemorante, medita sulla sua Medea. Anni difficili per lei, accusata di essere la “scrittrice di stato” della scomparsa Ddr. Intatta resta tuttavia la capacità di osservare, di restituire ambienti e sensazioni. Si prenda il fulminante Sessione fotografica L.A. , dove l’uso insolito del registro comico spazia dalla parodia all’autoironia. Si intravede l’austera scrittrice trainata da un taxista ex attore – felice emblema, questo, della flessibilità americana – fin dentro un frenetico studio fotografico affollato di modelle dove, volente o nolente, Wolf viene struccazzata da una lesta make-up girl e ripresa per un noto magazine. Con un finale a sorpresa che è la sintesi dell’attuale industria culturale.

L’ultimo racconto, Giovedì 27 settembre 2001, nato come capitolo finale di Un giorno all’anno. 1960-2000, è rimasto a lungo nel cassetto, troppo vicino era infatti lo choc dell’11 settembre. La prima edizione fu quella italiana con la voce di Anita Raja: un dono di Wolf per la fondazione dell’ “Almanacco” (Portofranco 2003), la rivista torinese curata da Gabriella Bosco e Giorgio Cerruti. Emerge anche qui la pratica della scrittura come sviluppo e scorrimento lungo le direttrici della memoria. Flâneuse della storia, mentre tende a indagare razionalmente gli eventi, Wolf di fatto li riattraversa in dialogo con improvvisi e pungenti personaggi del passato. La rievocazione di un paese ospitale – l’America che accolse gli emigranti in fuga da Hitler – si contrappone al “bacillo” neonazista delle periferie orientali di una Berlino riunificata. Segnali di movimento a chiasmo, destinati a spazzare via il sospetto di un antiamericanismo di maniera. Con una strategia già collaudata in Cassandra e Guasto – ma qui ben più esplicita – Wolf immagina un pacifismo che valica confini e linguaggi. Significativa è la reiterata citazione di The city of God di Edgar L. Doctorow, l’autore statunitense nei cui confronti l’io narrante manifesta una vera e propria affinità elettiva. La cifra di fondo è quella dello “strappo nel tempo” determinato dall’attacco terroristico. Domina il registro dello sgomento, del senso d’inappartenenza a un mondo scosceso dalla violenza. Resiste invece la dimensione privata, marcata, com’è consuetudine in Wolf, dai segni tangibili dell’esistenza quotidiana, anche nascosta – complice la simbiosi con il marito Gerhard – nello stallo casalingo, tra la doccia, il letto e la lavatrice. Perché sono proprio queste smagliature del banale a costruirsi come sapore di vita.

C’è poi un ultimo aspetto, meno appariscente e tuttavia significativo per una scrittura che non esclude la valenza operativa. È la funzione fondante, di reciproco riconoscimento tra Est e Ovest, che scaturisce dalla letteratura autobiografica tedesca successiva al 1989. Ma l’intesa non può che passare attraverso la correzione di alcune storture della storiografia occidentale, sembra dirci l’autrice. Come nel caso di Hans Stubbe, figura vessillo della citogenetica nella Ddr, poi discreditata dalle impazienti obliterazioni occidentali. Si sente un guizzo di rivolta frontale nella difesa dello scienziato, sostenuta dal richiamo a quel fiero ritratto di intellettuale sul campo che la scrittrice gli aveva dedicato nel lontano 1968. Non è l’unico riferimento alle opere precedenti. Ripetutamente, infatti, la scrittrice mette in luce le proprie risorse narrative, sigle memoriali che punteggiano il testo. Ossia: il passato è rivisitato attraverso la propria opera narrativa. Intellettuali artefici di storia? Indubbiamente questi racconti, nell’ottima resa delle traduttrici, si presentano come testimonianza di una volontà critica che cerca nella parola la misura dell’esistenza.