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Quando la mafia a Partinico voleva rapire Franco Nero

Autore: Marcello Sorgi
Testata: La Stampa
Data: 28 gennaio 2016

Nella sciroccosa estate siciliana di quarantanove anni fa si gira un film sulla mafia in un paese di mafia. Gli occhi di un ragazzo di quattordici anni, abituati a scorrere indifferentemente su un panorama ordinario di prepotenze, minacce, ma anche di continua dissimulazione, assistono così a un paradosso: man mano che la lavorazione del film va avanti e la rappresentazione della mafiosità prende corpo, anche la realtà circostante si trasforma, e i boss abbandonano l’espressione accomodante di garanti del quieto vivere, per fare la faccia feroce. Nel suo libro quasi autobiografico (L’incantesimo delle civette, Edizioni E/O, pp. 170, €15) Amedeo La Mattina, giornalista politico della Stampa impegnato negli anni dell’infinita transizione italiana, dalla Prima alla Seconda e ora alla Terza Repubblica, rivive la dimensione dell’adolescenza che diventa consapevolezza. Naturalmente, c’è un prima e un dopo l’arrivo della troupe di Damiano Damiani, venuto nel paesone agricolo di Partinico a realizzare il film tratto dal capolavoro di Leonardo Sciascia Il giorno della civetta. Nel prima, non sorprende, anzi è quasi una legge di natura, la regola mafiosa del più forte, che sovrintende agli scontri per la conquista dello spelacchiato campetto di calcio, tra una banda di ragazzini che vengono dai bassi fatti di case senza luce e acqua («giovani semiumani e malfamati», li definisce l’autore), e la comitiva dei «signorini», i figli della borghesia locale che passano svogliatamente la villeggiatura con le famiglie. Nel dopo, che comincia il giorno che il regista, gli attori e la troupe si accampano discretamente, circospetti, senza rivelare il soggetto del loro film, tutto cambia all’improvviso. Si vedono circolare nei vicoli, e quasi non ci si crede, Franco Nero, l’eroe dei western all’italiana adorato dai ragazzi del tempo, e Claudia Cardinale, la giovane e splendida attrice già apprezzata come Angelica nel Gattopardo di Luchino Visconti. La sonnolenza del paese è scossa dal ritmo nuovo dei ciak e delle battute che si ripetono, delle luci accese fino a tardi, delle osterie fino allora poco frequentate, che si ripopolano tutt’insieme grazie all’arrivo delle «Civette». Luca, il protagonista (Amedeo La Mattina ha rubato il nome a suo figlio), s’innamora perdutamente della Cardinale. È una storia impossibile, da sogno, come sono spesso gli amori degli adolescenti. Ma è qualcosa che gli fa temere il male che circonda il gruppo dei cineasti, ignari dei rischi che corrono a giocare con la mafia davanti ai mafiosi. Il pallido segreto sul contenuto del film, infatti, resiste pochi giorni, fino a quando «’u Signuruzzu», vecchio boss del paese, legato al suo potere arcaico e incontrastato, non s’accorge dell’oltraggio e decide di reagire, organizzando il sequestro di Franco Nero per far saltare la produzione del film. Imprevedibilmente, però, Luca scopre il piano della mafia e cerca di contrastarlo, sperando anche che i tempi di lavorazione si allunghino e con essi il soggiorno della Cardinale, a cui lo lega ormai un rapporto di amicizia e tenerezza che sconfina in un dimensione onirica. Il grande latinista Paratore distingueva i siciliani «di scoglio» da quelli «di mare aperto». I primi riescono a separarsi dall’isola nativa al massimo per qualche giorno, e subito devono farvi ritorno. I secondi, invece, se ne vanno e se la portano per sempre nel cuore. La Mattina, che ha vissuto a Roma ormai più anni di quelli della sua infanzia a Partinico, ha letto sicuramente i grandi siciliani: i «classici», perché la sua prosa riecheggia certe silenziose descrizioni verghiane della campagna siciliana, e perché alcuni dei suoi personaggi hanno elementi di ambiguità che fanno pensare a Pirandello. Ma anche il maestro Leonardo Sciascia, la cui scoperta segna il passaggio alla maturità con la conseguente perdita dell’innocenza del giovane protagonista Luca. Per la cronaca, il film di Damiani non poté essere ultimato in Sicilia. La storia del tentato sequestro di Franco Nero era vera, e troppi i rischi, per il regista, gli attori e la produzione, a sfidare per davvero la vecchia mafia del latifondo che non amava essere guardata da vicino, né disturbata, né spettacolarizzata, volendo appunto continuare a vivere, come una belva nella sua savana, appartata.