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Anatomia dell’intervento umanitario

Autore: Mauro Trotta
Testata: Il manifesto
Data: 3 marzo 2016
URL: http://ilmanifesto.info/anatomia-dellintervento-umanitario/

Jean-Christophe Rufin, accademico di Francia, è stato uno dei fondatori di «Medici senza frontiere». Autore di vari libri, vincitore del premio Goncourt, affronta nel suo ultimo romanzo, intitolato Check-point (Edizioni e/o, pp. 302, euro 18) un argomento di cui è profondo conoscitore, ovvero l’aiuto umanitario alle vittime di una guerra. La guerra in questione è quella jugoslava che insanguinò, negli anni Novanta del secolo scorso, dopo tanto tempo, il continente europeo. Una guerra di tutti contro tutti che vide all’opera eserciti regolari, bande di miliziani armati, forze di polizia e che vide la creazione di vari posti di blocco che segnavano i territori via via persi o riconquistati dalle forze in campo. Da qui il check-point del titolo che, però, come spiega lo stesso Rufin nella postfazione, non sta ad indicare soltanto una situazione reale, fisica, concreta, ma ha anche e soprattutto una valenza metaforica. Bisogna, infatti, intenderlo come «il simbolo del passaggio da un universo a un altro, da un insieme di valori al suo contrario, dell’ingresso nell’ignoto e forse nel pericolo». La storia, che nasce da un’immagine di una situazione realmente vissuta dall’autore, come confessa lui stesso sempre nella postfazione, sembra abbastanza lineare. C’è un convoglio di aiuti umanitari formato da due camion condotti da cinque persone diretto in Bosnia, alla miniera e agli impianti di Kakanj, dove hanno trovato scampo un gruppo di rifugiati protetti dai Caschi blu dell’Onu. I cinque volontari sono Maud, una giovane ragazza, Lionel, funzionario dell’organizzazione umanitaria che ha organizzato la spedizione, Marc ed Alex, due ex-militari che hanno fatto parte del contingente Onu stanziato presso la miniera, e infine Vauthier, figuro ambiguo, a suo dire fattorino di Parigi in convalescenza dopo un incidente d’auto, ma più probabilmente infiltrato nel gruppo da qualche servizio segreto. Se la trama può sembrare lineare, il modo di raccontare non lo è assolutamente. Il libro inizia con un Prologo in cui vediamo Alex e Maud, di cui non sappiamo ancora niente, su di un camion in fuga, inseguiti non si sa da chi. La ragazza per di più è ferita e non può dare il cambio alla guida all’uomo. La tensione è dunque subito altissima e non calerà praticamente mai nel resto del romanzo che, tra le altre cose, risulta essere un thriller davvero coinvolgente. Dopo questo inizio in medias res, la narrazione riparte con il convoglio già in marcia nei territori dell’ex-Jugoslavia e con continui flash-back vengono raccontati gli avvenimenti precedenti e le motivazioni che hanno spinto i cinque ad imbarcarsi nell’impresa. Anche se il racconto è sempre in terza persona, il punto di vista dominante è quello della ragazza, l’unica, forse, come scopriremo, che partecipa alla spedizione senza alcun secondo fine. Quello che innanzi tutto colpisce, però, e che in qualche modo spiazza il lettore, è la maniera in cui Rufin descrive il mondo del volontariato. I protagonisti non sono assolutamente eroi a tutto tondo, mossi solo dalla volontà di fare il bene, anzi. Lionel, ad esempio, il dirigente dell’associazione umanitaria risulta di una meschinità e di un arrivismo addirittura sconcertante. Grazie anche alla bravura della scrittura di Rufin, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a persone reali con tutte le loro contraddizioni, la capacità e l’incapacità di leggere le situazioni, la paura e il coraggio inaspettato e quasi incosciente che le caratterizza. Inoltre con questo libro l’autore decide di affrontare in maniera diretta un tema importante e di difficile risoluzione, ovvero il ruolo che deve assumere oggi l’intervento umanitario. È davvero sufficiente che si portino viveri e vestiti e generi di prima necessità alle vittime? O occorre un coinvolgimento più forte e più diretto? Rufin dà la sua risposta, riferendosi alle «vittime che viene voglia di amare con un amore particolare: quello che incita a prendere le armi». Il problema però allora diventa: siamo sempre sicuri di sapere chi sono le vere vittime?