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La primavera araba della letteratura

Autore: Simona Maggiorelli
Testata: Left
Data: 23 maggio 2016

Una mattina del 16 maggio 2003, 14 giovani uscirono da una baraccopoli vicino a Casablanca per fare una carneficina, uccidendo 45 persone e ferendone centinaia. «Sono rimasto scioccato, come i miei concittadini. Fino ad allora avevamo pensato di essere immuni dal terrorismo» dice lo scrittore Mahi Binebine a Left. «Ma abbiamo dovuto affrontare l’amara realtà: i giovani responsabili di quella tragedia non venivano da fuori». Da quello choc, molti anni dopo, è nato il romanzo Les étoiles de Sidi Moumen uscito in Francia nel 2010 e che ora, finalmente, arriva nelle librerie italiane con il titolo Il salto, pubblicato da Rizzoli. Romanzo bruciante, febbrile, visionario in cui lo scrittore marocchino immagina la storia di questi ragazzi cercando di capire che cosa li ha portati alla pazzia di quel gesto. Il libro e il film, I cavalli di dio che ne è stato tratto, hanno aperto la discussione sulle radici del terrorismo islamico che continua oggi. «Pagavamo il prezzo dell’analfabetismo, della povertà, dell’ingiustizia che dilaga negli slums come Sidi Noumen alle porte di Casablanca. Come scrittore potevo rimanere inerte? Ovviamente no». La letteratura può cambiare qualcosa? «Ho qualche dubbio ammette lo scrittore -. Ma penso anche che nessun atto contro la barbarie sia mai vano». Mahi Binebine è ospite al Salone del libro che, fino al 16 maggio, dà ampio spazio alle voci del mondo arabo (e sono tantissime nella penisola araba come in Europa) che si oppongono alla deriva autoritaria e fondamentalista. Ospitando autori emergenti (come Laila Slimani, Nel giardino dell’orco, Rizzoli) e nomi noti come il poeta siriano Adonis, lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun che ha scritto Matrimonio di piacere (La nave di Teseo) contro i matrimoni combinati. E poi libri che fanno discutere come Le scintille dell’inferno di Abdo Khal e 2084 la fine del mondo (Neri Pozza) di Boualem Sansal che immagina un futuro dominato dalla teocrazia islamica. Fuori da scenari alla Michel Houellebecq, Mahi Binebine preferisce indagare la realtà. Lo fa utilizzando un registro letterario alto e una narrazione cinematografica e incalzante.

Nel romanzo Il grande salto il fondamentalista Abou Zoubeir è tratteggiato come una personalità forte, carismatica. Ma né questo né le condizioni di indigenza in cui vivono Yashin, Hamid, Yashin, Nabil e gli altri ragazzi bastano a spiegare perché cadono nella trappola sposando la jihad. La religione sembra offrire loro uno schema in cui incanalare il loro malessere interiore, sembra dargli l’illusione di un’identità, di una appartenenza. «Ovviamente i poveri non diventano assassini. Non possiamo giustificare tutto con la disperazione e la miseria, di questi attentatori che si sentivano senza futuro. Ho trascorso molto tempo a Sidi Moumen, fra le capanne roventi, le fogne a cielo aperto e la discarica di 100 ettari. Se non fossi mai andato a scuola, forse anche io sarei stato una facile preda di mercanti di illusioni» commenta Binebine. «Lavorando con le associazioni in loco, ho scoperto che bastano due anni per addestrare un kamikaze. Spaventoso. Per prima cosa portano i giovani fuori dalla discarica, li ripuliscono facendogli fare le abluzioni cinque volte al giorno per la preghiera e poi gli trovano un lavoro con i “fratelli”. L’indottrinamento inizia con una lettura orientata Corano. Vengono gradualmente separati dalle loro famiglie. Il gruppo religioso diventa una famiglia surrogata che dà loro l’impressione di una dignità che non si sono mai sentiti addosso. Accusano gli ebrei e l’Occidente di tutti i mali dei musulmani. Gli mostrano video di “eroi”kamikaze...e in soli due anni, l’adolescente è piegato al loro volere».

La parola vergogna rimbomba nella testa di Rasa, giovane traduttore che vive nel clima soffocante di una metropoli araba sotto regime. Come una mosca, la parola «‘eib», gli ronza nella testa mentre legge i giornali occidentali e si scontra con il tradizionalismo della nonna che gli offre dove dormire. Come molti ragazzi della sua età, Rasa sogna una vita diversa, libera dal peso dall’oppressione religiosa. Ma, mentre lotta per ottenere tutto questo, mentre cerca Taymour che è fuggito dal suo letto e l’amico Maj forse finito nelle mani della polizia, Rasa si sente diviso, fuori posto, incapace di sentirsi a suo agio. Gli accadeva nell’America apparentemente libera dove ha studiato come in questa imprecisata città araba di cui avvertiamo tutto il fascino e le contraddizioni. C’è molto di autobiografico in questo sorprendente romanzo d’esordio di Saleem Haddad, Ultimo giro al Guapa, (Edizioni e/o), giovane scrittore cresciuto in Kuwait e in Giordania, che ha lavorato per Medici senza frontiere, prima di trasferirsi a Londra. Un romanzo in cui si avverte l’urgenza di raccontare il mondo vivo e in rivolta che bolle sotto il coperchio della repressione politica e religiosa in un Paese che potrebbe essere l’Egitto normalizzato di Al-Sisi, mentre il ricordo della rivolta di piazza Tahrir è ancora vivo: quei giorni del 2011 hanno segnato uno spartiacque e gli egiziani non sono più disposti a chinare la testa. Ma la città dove è ambientata la storia di Rasa potrebbe anche essere Tunisi colpita al cuore dall’attentato kamikaze del 2015 al Museo del Bardo dopo la rivoluzione dei gelsomini o qualche altro luogo dopo che le rivolte della primavera araba sono state sovrastate da una nuova onda fondamentalista. «In realtà non c’è stato un ritorno del fondamentalismo» precisa Haddad. «Di fatto la repressione politica e religiosa non è mai cessata, neanche durante il periodo delle cosiddette primavere arabe. Semmai si è scatenata con più forza proprio per reazione alla rivolta. I regimi temono chi si ribella, chi sfugge al loro controllo, perché non sono stabili ed egemoni come vorrebbero far credere. E la repressione è l’unica arma che hanno a disposizione». Nel mondo arabo c’è sempre stata un’ampia parte di società laica, di cui sono espressione intellettuali e scrittori, in Siria come in Egitto o in Palestina. Oggi riescono a far sentire la propria voce? «La situazione nel mondo arabo è più complessa e sfaccettata di quanto si creda» dice Haddad a left. «Non penso si possa leggere in termini di contrapposizione manichea fra classe intellettuale laica versus quella musulmana. Il confronto, a mio avviso, è piuttosto fra coloro che vogliono il cambiamento e quelli che fanno di tutto per mantenere lo status quo, un sistema conservatore, disfunzionale, che imbriglia la società». Nato e cresciuto in una famiglia cosmopolita (madre tedesca irachena e padre con radici libanesi e palestinesi), lavorando per organizzazioni umanitarie, Saleem Haddad ha avuto la possibilità di viaggiare molto e di seguire la questione dei profughi da entrambi i punti di vista, quello arabo e quello europeo. Che idea ti sei fatto delle responsabilità dell’Europa che oggi rischia di chiudersi in una Fortezza? «Penso che l’Europa dovrebbe avere il coraggio di guardare alle proprie responsabilità, ricordando il sostegno economico e politico che ha dato ai regimi più repressivi del Medio Oriente. Alla luce di tutto ciò, è ipocrita rifiutarsi di accettare le conseguenze delle proprie azioni. Questo non significa minimizzare i problemi di integrazione e lo sforzo che richiede ma significa vedere quali conseguenze producono le decisioni dei nostri governi. Siamo tutti esseri umani. Valori umani universali ci uniscono a prescindere da dove siamo nati».

Ha pagato la sua lotta per i diritti umani sulla propria pelle il premio Nobel per la pace Shirin Ebadi. E lo racconta in un’autobiografia scritta come fosse un romanzo, avvincente e vitale, nonostante il dolore per le molte ferite che il regime iraniano le ha inflitto con il ricatto, con la calunnia, con la prigione e la tortura di cui è stato vittima anche suo marito. Nel libro Finché non saremo liberi (Bompiani), che Ebadi presenta al Salone del libro, ripercorre le sue battaglie di ex giudice e poi avvocato per un sistema legislativo laico e più equo. Scrive in persiano Shirin Ebadi, non in arabo, e nella sua prosa c’è l’eco della tradizione poetica persiana e l’orgoglio della storia iraniana che ha radici nel sistema legislativo fondato da Ciro il grande che nel VI secolo a. C. per primo mise per iscritto, incidendoli su un cilindro, i diritti ( rivoluzionari per l’epoca) che riconosceva ai popoli conquistati. Rispetto a quella storia millenaria il regime teocratico di Khomeini segnò una cesura. «La situazione del sistema penale era molto grave, dopo la rivoluzione del 1979. La Repubblica islamica aveva sostituito il codice penale laico che l’Iran aveva seguito sotto lo scià con un sistema legale islamico basato su letture della sharia, la legge islamica, risalenti al VII secolo», ricorda Ebadi. «Fu allora che intrapresi la strada che seguo ancora oggi, cercando giustizia in tribunale col sostenere i diritti dei più vulnerabili donne, bambini, dissidenti e minoranze e lottando per riformare la legge sulla base del sentimento collettivo». Allora, come durante gli anni di governo di Ahmadinejad, gli squadroni della morte imprigionavano torturavano e uccidevano scrittori e intellettuali. Il nome di Shirin Ebadi era nella lista nera. «Il ministero dell’intelligence aveva formalmente approvato la mia uccisione», rivela. Non riuscirono ad eseguirla solo perché i riformisti erano riusciti a far emergere il coinvolgimento dello Stato nelle squadre della morte. E prima di essere costretta all’esilio Ebadi ha potuto vivere i giorni dell’onda verde, delle rivolte giovanili del giugno 2009, a cui in questo libro dedica le pagine più belle.