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Non si dà vera vita se non nella falsa. Sulla tetralogia di Elena Ferrante/2

Autore: Sara Farris
Testata: Nazione Indiana
Data: 26 giugno 2016
URL: https://www.nazioneindiana.com/2016/06/26/non-vera-vita-non-nella-falsa-sulla-tetralogia-elena-ferrante2/

[segue da qui]

Con la smarginatura i confini si dissolvono. Ma il tema della scomposizione dei margini corre lungo i quattro libri in modo meno esplicito e più metaforico quando la narrazione affronta questioni di confini di classe e di genere. Lena e Lila sono cresciute in una povera famiglia patriarcale dove era abbastanza normale vedere i propri padri picchiare le madri, così come, più generalmente, i maschi le femmine. Questi episodi di violenza assumono di fronte ai loro occhi un carattere quasi naturale e ineffabile: sono elementi ordinari della vita quotidiana. Eppure, entrambe le ragazze lottano, fin dai primi anni, ognuna a suo modo, per la propria indipendenza e per la propria emancipazione da un ambiente che le opprime e che riconoscono come profondamente ingiusto nei confronti delle donne. Lila è la prima a riconoscere il dominio maschile come una forma di potere, che lei decifra non in modo teorico, ma per questo in modo non meno radicale. Dopo la delusione per la fine di un amore intenso e clandestino con un giovane intellettuale (Nino), Lila decide di lasciare suo marito, uomo autoritario e ottuso, per stare con Enzo, che non le può certo garantire il livello di benessere del marito, ma che in compenso le sa trasmette integrità e passione politica. E soprattutto la rispetta. Lavorando come operaia Lila si scontra soprattutto con il sessismo che domina il suo ambiente di lavoro insieme agli altri problemi che affliggono le madri lavoratrici. Lo descrive in un discorso che assomiglia al potente, quanto memorabile, monologo di Giammaria Volonté ne La classe operaia va in Paradiso:

Disse sfottendo che non sapeva niente della classe operaia. Disse che conosceva solo le operaie e gli operai della fabbrica dove lavorava, persone da cui non c’era assolutamente niente da imparare se non la miseria. Ve l’immaginate, chiese, cosa significa passare otto ore al giorno immersi fino alla cintola nell’acqua di cottura delle mortadelle? Ve l’immaginate cosa significa avere le dita piene di ferite a forza di spolpare ossa d’animale? Ve l’immaginate cosa significa entrare e uscire da celle frigorifere a venti gradi sotto zero, e prendere dieci lire in più all’ora – dieci lire – per l’indennità freddo? Se ve l’immaginate, cosa credete di poter imparare da gente che è costretta a vivere così? Le operaie devono farsi toccare il culo dai capetti e dai colleghi senza fiatare. Se il padroncino ne ha necessità, qualcuna deve seguirlo nella camera di stagionatura, cosa che chiedeva già suo padre, forse anche suo nonno, e lì, prima di saltarti addosso, quello stesso padroncino ti tiene un discorsetto collaudato su come lo eccita l’odore dei salumi. (Vol. 3, p. 106).

Se Lila è la prima a comprendere il potere dei confini di genere, è anche la prima a comprenderne la fragilità: sarà infatti lei ad incoraggiare Alfonso, suo cognato, a vivere l’omosessualità in modo tranquillo. Lena, invece, scopre e sfida i confini di genere in un modo molto più libresco, ma non per questo meno capace di trasformarla. Mariarosa, sua cognata, la introduce al femminismo. La fa partecipare a gruppi di autocoscienza femminile. Lena è rapita, in particolare, da Carla Lonzi e dal suo famosissimo Sputiamo su Hegel. In questo saggio, la Lonzi propone di applicare la dialettica hegeliana servo/padrone al rapporto uomo/donna. Le donne hanno bisogno di diventare soggetti di una storia rinnovata, mettendo fine ad una condizione nella quale sono semplicemente un’ipotesi formulata da altri.

Come è possibile, mi dissi, che una donna sappia pensare così? Ho faticato tanto sui libri, ma li ho subìti, non li ho mai veramente usati, non li ho mai rovesciati contro se stessi. Ecco come si pensa. Ecco come si pensa contro. Io – dopo tanta fatica – non so pensare. Nemmeno Mariarosa sa: ha letto pagine e pagine e le ricombina con estro, dando spettacolo. Tutto qui. Lila invece sa. È la sua natura. Se avesse studiato, avrebbe saputo pensare a questo modo. (vol. 3, p. 254-5).

Lena scopre il potenziale trasformativo del pensiero femminista e della ribellione alla subalternità di genere; questa scoperta le cambia la vita e la getta subito in un groviglio fitto di contraddizioni. Ciò che la affascina infatti delle teorie femministe e dei gruppi di autocoscienza non è il loro attivismo, né le implicazioni politiche della loro ribellione; ma il fatto che questo modo femminile di pensare suscita in lei la stessa ammirazione e subalternità che ha sempre sentito nei confronti di Lila. Lena non usa infatti la sua nuova cultura femminista per sentirsi più vicina a tutte le altre donne, ma solo per essere più vicina a Lila. A differenza dell’amica – che riscatta la propria esperienza personale di abusi e di sfruttamento in fabbrica in lotta pubblica – Lena inizialmente sfrutta l’esperienza del gruppo femminista come carta da giocare a proprio vantaggio nella sua personale competizione con Lila. Anche in seguito, quando decide di scrivere un saggio sulla storia della cultura occidentale come cultura nella quale “gli uomini fabbricano le donne”, Lena ci parla di questa decisione enfatizzando ambiguità e motivazioni personali. Scrive sulle donne assecondando il pensiero femminista perché vuole fare colpo su un uomo: Nino. Sostiene la presa di coscienza delle donne e subito permette al suo amante di mancarle di rispetto e di ingannarla, mentendole. Tutti i passaggi del terzo e quarto volume sui rapporti di Lena con il femminismo e con le femministe sono perturbati dall’ansia e dai sintomi della sindrome dell’impostore. Da scrittrice ormai affermata, può far credere ai suoi lettori di essere riuscita a rompere con successo le barriere del canone letterario dominato dai maschi – il suo primo libro era un testo all’avanguardia per le sue esplicite scene di sesso, scritto proprio alla vigilia della rivoluzione sessuale – ma non può mentire a se stessa. La sua mancanza di sicurezza e di autenticità rispetto al suo impegno intellettuale e femminista non può essere disgiunto dalle sue crisi di autostima rispetto alla sua appartenenza di classe. Superando i confini di genere, le barriere del canone letterario e perfino le forme normative della rispettabilità borghese – lascia suo marito e le sue figlie per Nino, il suo amore di gioventù – Lena dà in realtà forma alla sua ansia per la sua incerta identità di classe. L’educazione e il matrimonio le hanno infatti permesso di fare una scalata sociale lasciandosi alle spalle il mondo popolare nel quale era nata per entrare a far parte della classe media riflessivo. E tuttavia si sente sempre estranea ad entrambe le realtà sociali. Mentre Lila supera i confini del proprio corpo fino a temere la disintegrazione del mondo che la circonda, Lena oltrepassa i limiti della sua identità di classe e di genere. Mentre Lila sembra affrontare il terremoto emotivo e sociale che la sovrasta con determinazione, cercando disperatamente di proteggere se stessa e suo figlio, Lena lascia che tutto ciò per cui vive e che la circonda cada a pezzi: il suo matrimonio, la sua relazione con le figlie e con se stessa.

E tuttavia, la Ferrante complica, con l’intelligenza delle soluzioni narrative, la logica binaria che oppone l’immagine di Lila, persona autentica, a quella di Lena, personaggio invece condannato all’inautenticità. Non è infatti la apparentemente falsa e autoironica Lena la stessa che ci racconta le sue battaglie per essere una persona vera con appassionata onestà? Se infatti al suo personaggio, che viola i confini delle gerarchie di classe e di genere, è negata la solidità tanto di convinzioni salde quanto di godere una dignità irreprensibile, quello che tuttavia lei ci lascia come narratrice è invece la sincerità: la lotta per la verità nonostante la consapevolezza del suo impossibile possesso.

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Il doppio e il perturbante

È stato osservato che la tetralogia di Elena Ferrante appartiene alla tradizione dei romanzi costruiti su una coppia, una coppia memorabile. Come Fastaff e il principe Hal, come Settembrini e Naphta, i personaggi di Lena e Lila ci rimangono impressi per la forza della loro relazione quasi simbiotica.

Per comprendere a pieno il significato di questi romanzi, e della loro enigmatica conclusione, mi sembra importante invece pensare a Lena e a Lila come a due facce della stessa persona; in altre parole, propongo di immaginare Lila come una proiezione simbolica dell’immaginazione di Lena. Se vale quest’idea, la tetralogia può essere interpretata anche come una narrazione del doppio e del perturbante, come nel caso del William Wilson di Poe o del Dorian Gray di Wilde. È stato Freud, come è noto, a legare il tema del doppio, presente nella letteratura tedesco dell’Ottocento, al tema del perturbante (das Unheimliche). La presenza di uno schema narrativo che duplica lo stesso destino, gli stessi misfatti e perfino gli stessi nomi nella vita di due persone diverse (vale a dire il protagonista e il suo doppio) è ciò che crea la sensazione inquietante di qualcosa di strano e perturbante. In altre parole, ciò che rende una serie di eventi diversi e identici all’interno di una narrazione come esperienza del perturbante, è la sensazione, se seguiamo Freud, che le coincidenze non sono casuali, ma pezzi di un puzzle che nasconde un significato fatale. E ancora più importante è il fatto che per Freud il perturbante si genera dall’intuizione che il doppio nei romanzi non sia una persona reale ma un automa o un’ombra immaginaria, sulla quale il protagonista proietta parti di sé che non conosce o che non accetta. Se vale questa prospettiva, è difficile non osservare che la tetralogia di Elena Ferrante ha tutti gli ingredienti per essere considerata come una narrazione del perturbante.

Nino, l’uomo amato da Lila da ragazza, diventa, col procedere della narrazione, l’amante e il partner di Lena da adulta. Ma Lila, da piccola, ha anche sempre sognato di diventare scrittrice; e sarà questa la professione di Lena. Sia Lila che Lena hanno due figlie più o meno nello stesso periodo e Lila chiama la sua Tina, dal nome della bambola di Lena. Le due figlie sembrano ripetere la stessa traiettoria delle madri: Tina è precoce ed estremamente intelligente proprio come Lila, mentre Imma, la figlia di Lena, è una bambina abbastanza comune. Ancora più significativo è il fatto che la figlia di Lila sparisce nel nulla, esattamente come Tina, la bambola di Lena, è sparita anni prima senza più essere ritrovata. Almeno fino alla fine del romanzo…. E tuttavia, il susseguirsi di queste coincidenze non coincide mai con una semplice ripetizione dell’identico. Ognuna di esse si presenta in fasi diversa della vita delle due amiche. Più precisamente, Lena “realizza” i sogni della sua infanzia e adolescenza – come quello di diventare l’amante di Nino e una famosa scrittrice – in età adulta. Ed è all’apice del suo successo come scrittrice e come femminista che Lena rivive, questa volta per interposta persona, il suo complesso di inferiorità verso Lila nel rapporto quotidiano fra sua figlia e la figlia di Lila, la geniale Tina. E questa è probabilmente la ragione per cui Tina deve sparire… per la seconda volta! La sua presenza come reincarnazione di un doppio inquietante di Lena le impedisce di rinascere da se stessa.

Passo dopo passo, la Ferrante ci porta a scoprire il rapporto fra le due protagoniste come l’incontro e il desiderio di Lena con il proprio doppio. È un incontro carico si sofferenza e di angoscia, ma di cui ha bisogno per trovare se stessa. La Ferrante non racconta lo sviluppo del personaggio di Lena come un percorso lineare, come una sorta di maturazione di potenzialità già esistenti nel suo carattere. Lena da adulta non è la versione matura e dischiusa del personaggio Lena da bambina. Piuttosto, la sua personalità ha bisogno di un confronto e di un rispecchiamento continuo con Lila, e di riconoscerla come suo doppio (e poco importa qui capire se Lila sia un personaggio fittizio o reale) per incarnarsi realmente. Ed è forse per questa ragione che solo alla fine del quarto volume, proprio nelle ultimissime righe, dopo che misteriosamente ritrova nel suo appartamento le due bambole perdute nella sua infanzia (lasciate lì presumibilmente da Lila), che Lena esprime il dubbio di aver vissuto la propria vita come una proiezione, o forse addirittura come la realizzazione della vita di un suo doppio:

[Lila] mi aveva ingannata, mi aveva trascinata dove voleva lei, fin dall’inizio della nostra amicizia. Per tutta la vita aveva raccontato una sua storia di riscatto, usando il mio corpo vivo e la mia esistenza (Vol. 4, p. 451).

L’enigmatica scoperta dell’esistenza delle due bambole, che Lena pensava ormai perse per sempre, illumina l’oscura mancanza della scomparsa di Lila. “Ora che Lila si è fatta vedere così nitidamente, devo rassegnarmi a non vederla più” scrive Lena nell’ultima commovente frase del romanzo. Ora che Lena può finalmente riconoscere la menzogna originaria di Lila, che fu centrale per tutta la loro lunga amicizia, lei immediatamente capisce anche che Lila non può più tornare. O forse, per Lena le due bambole sono solo metafore della sua relazione con Lila, una proiezione simbolica della loro relazione d’amicizia. Ancora più rilevante è il fatto che Lena ci dice che ha appoggiato le due bambole “contro il dorso dei suoi libri”. E solo ora che le osserva da vicino si rende conto di quanto siano brutte e a buon mercato. Ora che può finalmente vivere incarnata nella propria pelle, Lena è pronta a vedere le due vecchie bambole come due lati conflittuali della sua stessa personalità; come due relitti di un passato nel quale era ancora una ragazza povera che abitava quell’inferno di miseria che è stato il sud Italia. Ed è solo opponendosi a questo passato che può finalmente riconoscersi, nel presente, come una scrittrice di successo. Al di là dei significati possibili del ritrovamento delle due bambole, noi lettori non possiamo non sentire una profonda sensazione di nostalgia e di confusione. Perché capiamo che le verità ora visibili non sono semplici, né tanto meno univoche: “la vita vera, quando è passata, si sporge non sulla chiarezza ma sull’oscurità” scrive la Ferrante in uno degli ultimi densi passaggi di questa tetralogia. Si trova se stesse attraverso l’incontro con l’Altro e si perde l’Altro quando la sua presenza non è più necessaria. Tutto questo, però, non significa aver finalmente raggiunto una verità solida su cui potersi riposare.