Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

La 'ndrangheta veste noir

Autore: Piero Ferrante
Testata: Narcomafie
Data: 20 luglio 2016

Ha esordito nel 2008 con Perdas de fogu (a più mani, con Massimo Carlotto e il collettivo Sabot), un’inchiesta sulle basi militari in Sardegna. Ha scritto racconti contro la violenza sulle donne, inventato la figura letteraria di Biagio Mazzeo, commissario spietato e corrotto, dato vita a romanzi crudi e psicologici sulla corruzione e sul narcotraffico. La sua penna affonda l’inchiostro nel noir, il suo cuore batte al ritmo del thriller, nelle sue vene scorre sangue action. Ha vinto premi importanti, pubblicato per testate di livello. I suoi romanzi sono tradotti negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito. Piergiorgio Pulixi è la promessa mantenuta della letteratura italiana contemporanea. Da poco, per E/O (nella collana Sabot/age, diretta da Colomba Rossa e curata da Massimo Carlotto), ha dato alle stampe Prima di dirti addio, che chiude la quadrilogia dedicata a Mazzeo e alla sua squadra (vedi recensione pag.55). Lo abbiamo intervistato, per provare a capire come, oggi, la narrativa possa fare a raccontare le evoluzioni dei sistemi mafiosi internazionali.

2014. In un articolo per «Il manifesto», Massimo Carlotto, signore incontrastato del noir italiano, scrisse, a proposito del genere: “Finora ci siamo accontentati di raccontare le trasformazioni criminali prodotte dalla globalizzazione dell’economia. Credo sia arrivato il momento di affrontare un nodo culturale mai sufficientemente affrontato nel genere: la redenzione. Che non significa solo liberazione dal peccato ma dalla tirannide, da una condizione di degrado morale. Esattamente quella che stiamo vivendo oggi in quest’Italia. Ma non ci può essere redenzione senza conflitto. Con il potere, con la criminalità, con il lettore”. Concetto interessante e quanto mai attuale, che fa il paio con il fatto che lui utilizza la letteratura non solo come racconto d’evasione, come otium, ma come una vera e propria sostituzione del giornalismo d’inchiesta. Di Carlotto tu sei considerato un discendente diretto. E dei più fedeli. Come vedi l’inquadramento del noir nella società contemporanea?

Ho sempre visto il noir come un genere “liquido”, in continuo adattamento al recipiente che lo contiene: la realtà. Per sua stessa natura, il noir non può essere rigido, statico; non può continuare a raccontare un mondo che non esiste più, perché altrimenti non avrebbe senso – a parte il mero piacere di intrattenere. Il noir cambia così come muta la realtà. Questo è il segreto del suo successo e di una vitalità che deve rinnovarsi di libro in libro. Queste caratteristiche lo portano ad avere un rapporto privilegiato con aspetti sociali e antropologici della società e della mutazione continua della criminalità, perché è da questi che trae la sua linfa vitale. Dalla strada, dai luoghi dove va in scena la vita, quotidianamente. Ma forse oggi anche questo non basta più. Altre forme narrative, sia letterarie che televisive, indagano questi territori, alcune in modo egregio. Il rischio è quello che il noir si trovi nella condizione di rincorrere la tv o il cinema, rimanendo inevitabilmente indietro. Raccontare il territorio, quindi, non è abbastanza. È necessario raccontare come l’uomo interagisce con il territorio, come si pone in una situazione di totale ribellione alla società e a quelle che Pirandello chiamava “schiavitù delle esigenze sociali”. Le contraddizioni sociali, l’oppressione della criminalità, l’ingerenza del capitalismo criminale, non sono più sufficienti. Bisogna interrogarsi, come autori, su come l’uomo possa vivere in questo stato di cose, e come nasca in lui il sentimento di ribellione. La trasfigurazione letteraria della realtà deve ancora essere alla base del noir, ma il genere deve connotarsi con una valenza più psicologica, andando a mostrare le meccaniche intime dei personaggi che si trovano ad attraversare la realtà odierna che è particolarmente dura. Mostrare il conflitto – come dice giustamente Carlotto – oggi non è sufficiente; bisogna scrivere come l’uomo tenta di sopravvivere e superare quel conflitto, perché è esattamente quanto ci sta accadendo intorno.

Nel tuo ultimo romanzo, Prima di dirti addio, parli di narcotraffico, di corruzione, di affari; parli di ‘ndrangheta, di Cosa nostra, della loro versatilità alla ricerca di soldi; parli delle infiltrazioni in America e in Europa; mischi personaggi veri e altri verosimili. D’altronde Prima di dirti addio parte dalle carte di molte inchieste internazionali. Sei uno studioso oltre a essere scrittore. Può la letteratura stare dietro al narcotraffico, a un mondo diventato così ampio ma anche più facilmente raggiungibile?

Non è che “può stargli dietro”. Deve. L’esempio più calzante è quello di Don Winslow. Con il suo Il potere del cane e poi con Il Cartello ha analizzato e raccontato – narrativamente parlando – più di trent’anni di guerra al narcotraffico, arrivando fino al racconto dei giorni nostri. Ognuno di questi due romanzi gli è costato dieci anni di ricerca e scrittura. Due opere monumentali in cui ha raccontato l’ascesa del cartello di Sinaloa passato attraverso i conflitti col Cartello del Golfo e i Los Zetas. E nonostante ciò, Winslow non è riuscito a “stare dietro al narcotraffico” tanto che, pochi giorni fa, ha annunciato un terzo libro sull’epopea del personaggio Art Keller in lotta con i cartelli messicani. Nonostante il fortissimo legame con la realtà, la cronaca lo ha superato, (la seconda evasione del Chapo e il suo terzo arresto pochi mesi fa), e l’autore americano, che per sua stessa ammissione aveva ritenuto chiuso il capitolo narrativo sul narcotraffico, si è trovato costretto a tornare su quegli argomenti perché la realtà si muove con una velocità assurda, rendendo vecchie storie pubblicate anche solo un anno prima; e Winslow è un autore eccezionale, dalla solida preparazione e con un’attenzione microscopica alle dinamiche del narcotraffico; eppure narcos, trader, narcobroker, sicarios e tutta la fauna nella giungla del narcotraffico, sono abituati a muoversi e scivolare via proprio come l’acqua di una cascata: sono velocissimi e si adattano alla società. Se un autore vuole raccontare questo tipo di realtà, deve “correre”, adattandosi al ritmo e alla velocità di questa materia.

Prima di dirti addio presenta in modo incredibilmente reale il nuovo volto delle mafie. E soprattutto scandaglia quella che è stata definita la zona grigia, dove banchettano e si relazionano poteri criminali e colletti bianchi. E così accanto ai gangster appaiono proprio quelle figure di cui tu parlavi: avvocati, notai, broker...

Mi interessava raccontare ciò che è davvero la ’ndrangheta: una multinazionale del crimine. Per farlo, dovevo descrivere il livello altissimo di professionalità che alcune figure professionali/criminali hanno raggiunto: il narcobroker che si occupa di tutta la gestione delle spedizioni, della compravendita di cocaina e di tutta la filiera della distribuzione; i broker e i trader dislocati nella City di Londra, a Wall Street, a Singapore e a Hong Kong; gli avvocati olandesi che difendono i boss, le banche e le grosse aziende colluse con “l’economia illegale” che fornisce loro una liquidità mostruosa che in molti casi è stata un salvagente nell’oceano burrascoso della crisi finanziaria. Scrivere che queste organizzazioni ormai possiedono diverse banche – che hanno acquistato negli anni della crisi –, raccontare come “la Santa” è stata in grado di far prendere loro lo Stato da dentro, analizzare come le ’ndrine si replichino come un virus anche in territori differenti e lontanissimi con le stesse caratteristiche decennali, è raccontare la realtà della mafia calabrese oggi. Raccontare che le mafie non uccidono se non è strettamente necessario può avere degli svantaggi dal punto di vista narrativo, ma è ciò che accade intorno a noi. Queste persone hanno una mentalità da businessman in cui tutto viene filtrato da modelli economici all’avanguardia; questi individui hanno raggiunto un livello culturale e di professionalità altissimo; i veri boss non si trovavano nei piccoli quartieri e nelle strade, ma nei CdA di grosse aziende quotate in Borsa.

Guerra alla droga, cartelli, poteri deviati. Non è la prima volta che ti ci confronti. Due anni fa, con il Collettivo Sabot, deste alle stampe Padre nostro. Ora, Prima di dirti addio...

Con Padre Nostro avevamo raccontato come è cambiato il narcotraffico a livello globale dopo la morte di Pablo Escobar, e di come la Spagna sia diventata la porta d’ingresso della cocaina nel mercato europeo. Ma mi sono reso conto che anche un romanzo che era uscito soltanto due, tre anni prima, era già stato superato dalla cronaca. Così come per Winslow, anche qui la cronaca, la realtà dei narcos, aveva già superato la nostra narrazione. La nuova frontiera – a mio avviso – era raccontare il più grande paradosso nel mondo del commercio degli stupefacenti, ovvero che la lotta alla droga, la fantomatica “guerra al narcotraffico” genera più ricchezza di quella che la droga stessa produce. Sembra un paradosso, ma non lo è. Raccontare questo significava raccontare la collusione con la politica e l’alta finanza, le oscure coperture istituzionali, e i viscidi legami tra narcotraffico e terrorismo. In una parola sola: la realtà.