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Budapest e il coraggio del compagno Kopacsi: 60 anni fa la rivolta d'Ungheria contro l'Urss

Autore: Ezio Mauro
Testata: Repubblica
Data: 19 settembre 2016
URL: http://www.repubblica.it/cultura/2016/09/19/news/budapest_e_il_coraggio_del_compagno_kopacsi_60_anni_fa_la_rivolta_d_ungheria_contro_l_urss-148054228/

Invia per email Stampa 19 settembre 2016 291 JOSIF STALIN sorrideva paterno mentre incominciava a far buio 60 anni fa in piazza degli Eroi, quando gli studenti di Budapest gli passarono un cappio d'acciaio attorno al collo il 23 di ottobre, lo legarono a un camion e provarono a abbatterlo finché il cavo si spezzò. Il tenente Kiss, poliziotto e comunista, non sapeva cosa fare. La statua di bronzo fissata sul marmo era alta 12 metri, sembrava dominare l'intera città nella sua soggezione eterna all'Urss: ora i ragazzi volevano addirittura rovesciarla, dopo aver obbligato il partito ad autorizzare la prima manifestazione di opposizione della storia, dopo aver devastato la libreria russa Horizon, spargendo per strada i libri sovietici, dopo aver tagliato con le forbici dal tricolore ungherese la falce e il martello dell'oppressione. Poi la folla si aprì tra gli applausi.

Fece passare gli operai di una fabbrica di Pest con le bombole e i cannelli della fiamma ossidrica per tagliare i piedi alla statua. "Che faccio", chiese Kiss al telefono, "datemi ordini. Loro sono centomila e noi 25, compagno colonnello". "So che sei pronto a dare la vita per il partito", rispose il questore, Sandor Kopacsi, "ma per la statua di Stalin ne vale la pena?". Così la polizia rimase a guardare. Attaccato a tre gru il monumento crollò alle 9,37 col rumore della rivoluzione, e la testa rovesciata a terra era alta da sola come una persona. In mezzo alla notte di festa e al blocco di granito, però, resistevano giganteschi e immobili gli stivali del dittatore. Cominciò così la rivolta di Budapest del 1956 e cominciò il dubbio del colonnello Kopacsi, quel dubbio supremo che in 13 giorni gli ribaltò la vita, portandolo da questore comunista scelto personalmente dal dittatore staliniano Rakosi ("È alto? È operaio? È ariano"?) a imputato di cospirazione antipatriottica, alla sbarra insieme con il principale martire della rivoluzione, l'ex Primo Ministro ungherese Imre Nagy. Kopacsi, di cui l'editore e/o ripubblica oggi la cronaca autobiografica di quei giorni (Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello), ha tutto per essere un quadro comunista perfetto. Dinastia operaia di tre generazioni, la guerra coi partigiani nel '44 mentre la guarnigione tedesca si ritira e un ufficiale russo attraversa a cavallo le strade della città appena liberata con gli stivali di capretto, un lungo bocchino e le donne che si voltano a guardarlo: Leonid Breznev.

Figlio del partito, quando diventa questore Kopacsi trova perfettamente normale avere due "consiglieri" sovietici che partecipano a tutte le riunioni, e riferiscono ogni sera in ambasciata. Ma quando entra in parlamento e sente il discorso "eretico" di Imre Nagy appena nominato Capo del governo, quelle parole sono il seme del dubbio. Un dubbio tormentato, lento, senza nessuna elaborazione teorica, che si fa strada tra il terrore sovietico e le lotte intestine che detronizzano Nagy. Ma la conversione spontanea del colonnello bolscevico alla ribellione antisovietica è un'avventura individuale che accompagna passo passo la rivolta popolare di Budapest e la traduce in una testimonianza esemplare. Fin dal primo giorno dell'insurrezione, quando viene avvertito da una poliziotta che c'è strana gente sui tetti.

Sono gli uomini dell'Avo, i servizi di sicurezza, che presidiano il palazzo della radio dove i manifestanti vogliono entrare. Partono due raffiche, cadono quattro studenti. Quando arrivano 14 carrarmati e 17 camion di soldati il tenente colonnello che li comanda si rifiuta di sparare sulla folla ed esce dalla torretta tra gli applausi. In qualche caserma si cominciano a dare le armi ai cittadini ribelli, gli operai della United Lamp di Csepel portano centinaia di fucili alla stazione radio. Che fare? Kopacsi apre i 5 sigilli grandi e i 14 più piccoli della busta top secret in cui il ministero degli Interni ha scritto il "Piano M" per le emergenze. Ma quando legge che l'arsenale della questura dovrebbe contare su 20 mitragliatrici che non esistono, su 80 fucili mentre sono quattro, su divise di ricambio, conserve, bibite e sigarette per mille persone e ci sono in tutto due cassette di mele, capisce che dovrà fare da solo.

Ma chi è il nemico? Alle due del mattino una donna chiama la questura da Buda dove stanno scendendo dalla collina cento carrarmati russi Josif-Stalin coi lunghissimi cannoni. Chiamano da viale Tanacs, dove una colonna di T34 spara raffiche di mitra contro ogni finestra illuminata. Il Politbjuro ipnotizzato e immobile riporta Nagy alla guida del governo, il Cremlino invia Suslov e Mikojan a Budapest. Ma è tardi. Il colonnello Pal Maleter che con 5 carrarmati dovrebbe riportare l'ordine nella zona del cinema Corvin, roccaforte ribelle, vede coi suoi occhi lo scontro tra le forze sovietiche e gli insorti, studenti quasi tutti adolescenti, e operai. Esce dal blindato e dà ordine di informare il ministro della Difesa: passo con l'insurrezione. Adesso i cittadini armati fanno fuoco contro la facciata della questura e avvertono col megafono: "Se siete per la libertà mettete la bandiera alla finestra". Kopacsi tentenna, il dubbio diventa ideologico, poi decide: appare la bandiera bucata al balcone, il questore col coltello ha portato via la falce e il martello. C'è ancora da provvedere alla stella rossa alta 6 metri sul tetto, simbolo della sovietizzazione, finché all'imbrunire si spengono per la prima volta le sue centodue lampadine elettriche e comuniste.

Il questore esce con la divisa e le medaglie al petto, va a parlare a Nagy, sulla porta sente la menzogna del proconsole russo Mikojan che abbraccia il Primo Ministro: "Noi dobbiamo lasciare il Paese, compagno Nagy, salvate il salvabile". I carri sovietici abbandonano Budapest lunedì 29 ottobre, Janos Kadar è il segretario del nuovo partito socialista ungherese dei lavoratori, Nagy tenta addirittura un governo di coalizione con ministri non comunisti. Intanto sono morti mille ungheresi, almeno 500 soldati russi, il centro di Budapest è devastato e in macerie. Ma la gente della capitale martedì mattina è per strada a vedere lo spettacolo dell'Armata rossa che se ne va coi cannoni alzo zero mentre il quartiere russo attorno all'ambasciata trasloca in massa coi materassi e i divani sul tetto. La rivoluzione sembra aver vinto.

Ma ecco all'improvviso che arrivano in questura segnalazioni di movimenti armati sovietici al contrario. Ritornano invece di andarsene. Da domenica 28 ci sono carri in entrata al posto di frontiera russo. Nuove truppe si muovono a Nyirbator e Battonya vicino al confine rumeno, tutti gli aeroporti militari sono circondati, due stazioni ferroviarie sono in mani sovietiche. Il Premier chiede spiegazioni all'ambasciatore russo Jurij Andropov (futuro capo del Kgb e Segretario Generale del Pcus) che lo inganna parlando di normali avvicendamenti tra reparti. Nagy cerca di precedere la sventura che lo incalza, alle 16 fa approvare al governo la neutralità dell'Ungheria, alle 17 consegna ad Andropov la denuncia del Patto di Varsavia.

Ma poi, convoca Kopacsi, si toglie gli occhialini e confessa l'angoscia: è sparito il ministro dell'Interno Munnich, avete idea di dove sia? E sappiate che risulta introvabile anche il Primo Segretario del partito, Janos Kadar. Tutto precipita, Nagy si illude ancora. Quella notte invia il nuovo ministro della Difesa Pal Maleter a trattare il ritiro russo nella trappola di Tokol, quartier generale militare sovietico, a 20 chilometri dalla capitale: dovrà fare rapporto telefonico al governo ogni mezz'ora. Arrivano le prime due telefonate, tutto in ordine, si sta discutendo. Poi più nulla. Kopacsi prova a chiamare Tokol: silenzio, nessuno risponde dalla base. Decidono di mandare un blindato con bandiera bianca e chiedono al maggiore che lo guida una cronaca diretta via radio metro dopo metro. "Le strade sono tranquille... ecco l'isola di Csepel... l'acciaieria è illuminata ... siamo vicini a Tokol... la sentinella saluta... vedo i primi carri Stalin... ci fanno passare... adesso tornano indietro... ci seguono...si avvicinano... ecco la caserma... ci sono almeno 150 blindati...rallento...i soldati corrono verso di noi...scendo a parlare...". Poi solo il soffio del buio nel ricevitore. Kopacsi e Nagy guardano l'operatore radio che parla nel vuoto: "Pronto Gufo, qui Sparviero, rispondete...".

Nessuno può rispondere ormai. Dopo averli ricevuti con gli onori militari, dopo aver concordato i discorsi d'addio e i mazzi di fiori ai soldati in ritirata, a mezzanotte è apparso il generale Ivan Serov con una gigantesca Mauser in mano: "Siete in arresto". Tutto questo Nagy non lo sa ma lo immagina. "Cercate di dormire almeno un'ora o due, compagni", dice andandosene verso la brandina che da giorni tiene in ufficio. Nella notte più lunga d'Ungheria non c'è più nulla che si possa fare.

Kopacsi lo sveglia alle tre. La morte entra a Budapest a quell'ora, passando davanti alla questura con tre cingolati, i primi di un'invasione. "Mi rifiuto di ordinare una resistenza armata", dice Nagy. Desidera avere altri rapporti? "È inutile, amici miei. Grazie a tutti voi". I primi spari d'artiglieria sono a Buda, mentre Nagy legge l'ultimo comunicato radio: "Nelle prime ore del mattino truppe sovietiche hanno attaccato la capitale per rovesciare il governo legittimo e democratico d'Ungheria. Il governo è al suo posto. Ne informo il popolo ungherese e il mondo intero". Ma siamo in piena crisi di Suez, nella settimana delle elezioni presidenziali americane per la riconferma di Eisenhower, mentre il segretario di Stato Usa Foster Dulles viene operato per un cancro. Il mondo è distratto, l'Occidente impegnato, le Nazioni Unite occupate altrimenti: l'Ungheria è sola mentre l'artiglieria sovietica distrugge interi palazzi e Kadar da una stazione pirata russa annuncia la creazione del suo controgoverno fantoccio, chiedendo all'Urss "di aiutare la nostra nazione a schiacciare le forze bieche della reazione".

Adesso Kopacsi nel palazzo del parlamento senza più governo si toglie il cinturone, prende uno straccio bianco e scende ad aspettare la prima colonna sovietica. L'ufficiale russo che esce dal carrarmato lo ignora, entra nel palazzo, cerca la sala radio, apre la porta con un calcio, ma trova solo la voce registrata di Imre Nagy sul nastro dell'appello finale. Il Primo ministro coi suoi uomini si è rifugiato all'ambasciata jugoslava, dove Tito in questo modo lo protegge e lo neutralizza. I sovietici ordinano che i carri ungheresi alzino i cannoni al cielo, che tutti depongano i fucili a terra. I soldati lo fanno piangendo. Un uomo vestito di nero prende per un braccio Kopacsi: "Figliolo, sai dov'è l'ambasciata americana?" È il cardinale Josef Mindszenty, primate d'Ungheria, appena liberato dalla rivoluzione dopo 8 anni di isolamento che sta cercando di mettersi in salvo col suo vecchio segretario, arrotolando i bordi della veste viola sotto il mantello. Raggiunta l'ambasciata per strade di fortuna, in mezzo al massacro criminale sovietico, ci resterà 15 lunghissimi anni.

Kopacsi è arrestato dai russi, portato nei sotterranei dell'ambasciata sovietica dov'era entrato tante volte, con Andropov che dopo il ballo di una polka a Capodanno, con baciamano finale, aveva addirittura fatto arrivare un mazzo di rose bianche alla moglie del questore: allora, lui non poteva immaginare che sotto la sala da ballo c'era il gulag che lo avrebbe rinchiuso. Arrivano camion carichi di ragazzi, ripartono pieni di cadaveri, ogni dieci minuti sente una scarica di fucile nel cortile. Poi lo trasferiscono nella prigione dei servizi segreti dove porteranno Nagy con un volo militare notturno, gli occhiali da saldatore per renderlo irriconoscibile dopo il rapimento sovietico e il trasporto forzato in Romania. Nei continui interrogatori chiedono a Kopacsi di riconoscersi colpevole di spionaggio, cercano di assegnargli il ruolo del bravo operaio ingannato da Nagy, purché lo denunci. Se si riconoscerà colpevole, è l'ultima offerta, avrà salva la vita.

Davanti al "Tribunale del Popolo" il questore dirà che nel 1955-56 era "sotto l'influenza di Imre Nagy contrariamente alle direttive del partito, convinto che le sue idee potessero far uscire il Paese dalla crisi". Il 14 giugno del '58 parla Nagy: "Ho cercato in due riprese di salvare l'onore della parola socialismo nella pianura del Danubio, nel '53 e nel '56. In questo processo devo sacrificare la mia vita per le mie idee. Sono sicuro che la storia condannerà i miei assassini. Una cosa sola mi ripugnerebbe, essere riabilitato da coloro che mi hanno assassinato". La domenica 15 giugno 1958 "in nome della classe operaia e di tutto il popolo lavoratore" Nagy, Pal Maleter e il giornalista Miklos Gimes vengono condannati a morte senza appello, Kopacsi all'ergastolo. I tre non presenteranno la domanda di grazia e verranno impiccati il giorno dopo alle sei del mattino nel cortile della prigione centrale di via Kozma, dove saranno sepolti nella carta catramata, a faccia in giù, dentro fosse anonime.

Sette anni dopo, nel marzo '63 Sandor Kopacsi lascia il carcere per l'amnistia di Kruscev. Il colonnello è libero, ma il partito gli dice che deve "espiare i delitti", e lo obbliga a fare il tornitore. La bambina, Judit, a scuola è inserita nella lista dei ragazzi "socialmente estranei allo Stato operaio", viene emarginata, tenta un avvelenamento con le medicine, finché un amico la fa emigrare in Canada. Riuscirà infine a raggiungerla anche Sandor Kopacsi con la moglie Ibolya, trovando lavoro da meccanico e comprandosi una vecchia Buick di seconda mano, come quelle che vedeva nei film.

La sera prima di partire da Budapest, alla cena d'addio con gli amici si presenta il procuratore Szalay, che aveva chiesto l'ergastolo per lui e la morte per Nagy, Maleter e Gimes. Mangiano, ascoltano i discorsi di saluto, bevono e soltanto mentre tornano a casa in tram - quei tram dove avviene sempre tutto, in Ungheria - Szalay riesce a parlare: "Sandor, potrai mai perdonarmi, in nome di Gesucristo?". "Sì. Ma come fai con quelli che non possono più perdonarti?". "Questo riguarda solo me", dice il procuratore scendendo alla sua fermata, mentre a Budapest le porte del tram si chiudono infine su quel terribile 1956.