Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

"Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello" di Sándor Kopácsi

Autore: Marilia Picone
Testata: Stradanove
Data: 4 novembre 2016
URL: http://www.stradanove.net/libri/abbiamo-quaranta-fucili-compagno-colonnello-di-sandor-kopacsi#null

Budapest. 23 ottobre 1956: iniziava la rivoluzione ungherese. 4 ottobre 1956: dopo neppure quindici giorni di lotta e di folle esaltazione, la rivoluzione era già finita, sotto i cingoli dei carri armati sovietici. “Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello” è il racconto di quei giorni, del periodo precedente e dei sette anni seguenti, fatto da uno dei protagonisti principali- Sándor Kopácsi, allora questore della città, da sempre membro del partito comunista.

La rivoluzione era incominciata come una semplice manifestazione degli studenti in sostegno degli avvenimenti di Poznán, in Polonia, dove il regime aveva duramente represso un’altra manifestazione di studenti, e si era poi trasformata in una accesa protesta contro la dittatura di tipo stalinista di Matyás Rákosi e più genericamente contro la presenza sovietica in Ungheria. Era come un fuoco che covava sotto la cenere e che divampò veloce e improvviso: le scene descritte da Kopácsi, dei poliziotti che si erano affiancati ai manifestanti che avrebbero dovuto combattere, sono significative. Lo stesso Sándor Kopácsi, la cui fedeltà al partito non si poteva mettere in dubbio, ebbe solo alcuni momenti di esitazione prima di aderire alla rivoluzione. Si trattava- dopo tutto- di scegliere se seguire il famigerato e odiato Rákosi oppure il nuovo eroe della scena ungherese, l’ex primo ministro Imre Nagy, che già aveva mostrato la sua propensione per un nuovo corso, moderando l’industrializzazione, permettendo ai contadini di abbandonare la collettivizzazione, scarcerando prigionieri e cercando in ogni modo di ridurre l’atmosfera del terrore. Che c’era sempre, peraltro.

Il terrore, la paura delle delazioni o di essere sorvegliati, la quotidiana incertezza sulla sicurezza della vita propria e dei propri famigliari, serpeggiano nelle pagine di Sándor Kopácsi, che è un testimone oculare e un narratore di eccezione. Racconta di quei giorni convulsi, del coraggio degli studenti che combattevano con armi fatte in casa, delle bottiglie molotov, delle bandiere sventolanti a cui era stata tagliata via la parte con l’emblema che ne dichiarava l’appartenenza all’Unione Sovietica trasformandole nel tricolore nazionale. È molto umano, Sándor Kopácsi, e nel suo racconto, dal passo veloce, quasi ansimante per tutte le novità che si susseguono e a cui è difficile stare dietro, dettagliato e appassionato, c’è posto anche per l’amore per la moglie, per dirci dei comportamenti impulsivi e anticonvenzionali di lei, e per la preoccupazione per la sorte della figlia che, fortunatamente, trovò riparo presso l’ambasciata jugoslava insieme a ‘zio Imre’.

La caduta, dopo l’esaltazione alle stelle. Come avevano potuto illudersi, gli ungheresi, che l’Unione Sovietica li avrebbe lasciati andare? Dapprima furono voci, poi il rombo inequivocabile dei grossi mostri T34 che si avvicinavano. I carri armati nella bella città sul Danubio. Sándor Kopácsi fu arrestato. Imre Nagy pure, e a tradimento, perché, trasportato in aereo in Romania, gli era stata assicurata la vita (morì impiccato il 16 giugno 1958). Sándor Kopácsi fu condannato all’ergastolo, liberato per un’amnistia dopo sette anni.

Il tono di voce di Sándor Kopácsi è cambiato. Si sente la delusione, la sofferenza, anche quella fisica, la lotta interna per non farsi sopraffare dallo scoramento. Descrive il processo, e poi gli anni di prigione, le torture, la reazione alle notizie che filtrano, l’altalenarsi di speranze e frustrazioni. Poi la libertà e il mancato riconoscimento dei diritti civili. Infine l’emigrazione, raggiungendo la figlia che già era stata mandata in Canada. Sappiamo che Sándor Kopácsi è morto a Toronto nel 2001. Di lui ci resta questo libro: anche se non possiamo non tener conto che è uno scritto soggettivo, “Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello” è pur sempre una testimonianza straordinaria.