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«Il nazismo marchierà noi tedeschi per secoli»

Autore: Vito Punzi
Testata: Libero
Data: 16 febbraio 2017

Christoph Hein (1944) è uno scrittore che ha cambiato più volte cittadinanza (con vari trasferimenti tra Germania filosovietica (dov’è cresciuto) e Germania federale. Nonostante ciò, anche di recente ha dichiarato di ritenersi anzitutto uno slesiano.

Lo sentiamo in occasione dell’uscita in Italia del suo ultimo libro (Il figlio della fortuna, e/o, pp. 432, euro 19,50, traduzione di Monica Pesetti) e gli chiediamo anzitutto che cosa significhi, specie dal punto di vista letterario, questo essere slesiano. «La Slesia per la Germania è ormai una terra perduta, ma tra tutte le regioni tedesche è quella che ha visto nascere un numero incredibilmente elevato di scrittori, a motivo probabilmente delle sue foreste, delle sue montagne, del clima aspro, delle dure condizioni di vita. Le difficoltà aiutano i letterati fin dall’età di Omero».

In effetti, leggendo Il figlio della fortuna (non si capisce perché non sia stato tradotto per intero il titolo originale, Figlio della fortuna con padre) s’intende quanto la scrittura di Hein sia debitrice alla “difficoltà” per eccellenza dei narratori tedeschi del secondo Novecento: il senso di colpa per i crimini commessi durante il Terzo Reich. Il romanzo racconta infatti l’ombra mostruosa che un padre nazista getta anche dopo morto su Konstantin, il figlio, la cui vita è un susseguirsi di tentativi falliti (sia nella Germania comunista che in quella occidentale) di liberarsi di quel padre, che in realtà neppure ha conosciuto. C’è in questo libro un senso di condanna inoppugnabile legata alla trasmissione dei geni da padre in figlio degna della stessa cultura razziale da cui ci si vorrebbe emancipare: «Anch’io sono uno di loro», dice il protagonista, «e non mi aiuta essere nato dopo la disfatta, dopo la guerra, dopo la fine di Hitler e delle SS. Io ero suo figlio».

Avendo vissuto nella DDR, provo a chiedere a Hein se nella Germania riunificata, insieme alla colpa nazista, non siano presenti, con le debite distinzioni, anche «ombre mostruose» di quello Stato filosovietico che certamente non era democratico, ma lo slesiano rincara la dose sul senso di inappellabile destino di condanna, dopo Hitler: «L’ombra ingombrante dell’epoca nazista, del fascismo e del genocidio si distenderà ancora a lungo, molto a lungo sulla Germania. Credo per secoli. Quel crimine è stato pensato in modo mostruoso e insieme raffinato, ed è stato eseguito con una perfezione davvero criminale e tedesca. La nazione della cultura quale era la Germania si è trasformata nel giro di una notte in un popolo di criminali».

Insomma, parole che confermano l’impressione a caldo, dopo la lettura del romanzo: nessuna possibilità di dimostrazione d’innocenza, per i figli, per i nipoti, per i pronipoti... Per generazioni. La colpa nel sangue, appunto. E riguardo alla DDR, non era forse una dittatura? «Essa non sarà né per la Germania né per il mondo un’ombra inquietante», argomenta sereno Hein. «Come ha detto una volta Stefan Heym, essa, rispetto alla storia, è stata come una nota a piè di pagina. Un tentativo di realizzare una politica diversa, di costruire un diverso modello di società, lontano dalla tensione al profitto. Il tentativo è stato del tutto fallimentare e, diversamente dallo Stato tedesco fascista, non ha mai avuto il consenso dei cittadini. La popolazione tedesco-orientale fin dall’inizio e fino all’ultimo era contro quello Stato».

Prendo atto, ma temo non sia stata esattamente questo, la DDR. Se è vero che quella che Hein definisce «politica diversa» è stata di fatto un regime antidemocratico, per di più fondato sulla delazione, cioè sulla partecipazione attiva di un numero rilevante di tedeschi orientali (conta poco che fossero o no comunisti convinti) alla costruzione di un «diverso modello di società». Altro che mancanza di consenso...

Proviamo a cambiare tema. Nel romanzo Marsiglia, uno dei luoghi che Konstantin sceglie per tentare la fuga dall’ombra paterna, si rivela un luogo della nostalgia. È lì che scopre il cinema, la Nouvelle Vague. Ed è così che scopre anche il cinema tedesco, vecchi maestri come Murnau, ma neppure questo lo riconcilia con la storia tedesca... «No», risponde categorico Hein, «Konstantin non può riconciliarsi con la storia tedesca, poiché l’ombra del padre è per lui troppo spaventosa. La incontra continuamente e ovunque. Il cinema, in particolare quello francese, tedesco, americano e russo, lo interessa come arte. E vorrebbe anche diventare regista, ma anche questo gli viene impedito per la presenza di quell’ombra nella sua vita».

E qual è il ruolo del cinema nella sua scrittura narrativa? «Anch’io sono un frequentatore entusiasta di sale cinematografiche e i film che apprezzo di più sono tra quelli prodotti tra il 1920 e il 1950, e naturalmente i francesi e gli italiani degli anni ’60 e ’70. Non ho difficoltà ad ammettere che molto di ciò che piace a Konstantin nel libro appartiene ai miei gusti. Tuttavia, anche se ho collaborato con registi di teatro e di cinema, direi che, sebbene le altre arti siano per me sempre stimolanti, tutto ciò non ha alcun influsso reale sulla mia scrittura narrativa».