Sarà anche stato «il figlio della fortuna», ma suo padre sarebbe sempre rimasto per lui una sciagura, una iattura: das Pech, «il malocchio», la croce da portarsi addosso per tutta la vita. Non l’aveva nemmeno conosciuto, era morto prima che nascesse: appena prima, impiccato dai polacchi dopo un processo sbrigativo come criminale di guerra, e già questo gli aveva risparmiato per un pelo un diretto confronto con il male, con il mostro, con il genitore foriero della colpa destinata a ricadere fatalmente sul figlio.
Di lì a poco sarebbe seguita la resa incondizionata, la capitolazione della Germania, l’occupazione dei sovietici. E anche in quella situazione disperata, per la famiglia espropriata dei suoi beni, per la madre ignara e tuttavia marchiata a fuoco dalla vergogna di essere la vedova di un assassino, il bimbo, ancora per pochi giorni al sicuro, ancora in grembo, sarebbe stato una protezione, «un portafortuna»: mai più i soldati russi si sarebbero azzardati a far violenza a una donna incinta all’ultimo stadio della gravidanza. Poi comunque li avrebbero messi su una strada, comunque la donna di buona famiglia avrebbe perso la sua villa e le sue ricchezze, comunque la moglie dell’uomo più facoltoso e potente della provincia sarebbe crollata in fondo alla scala sociale, segnata a dito dai suoi concittadini.
Quando lui nacque però, il 14 maggio 1945, una data scelta con precisione matematica da Christoph Hein — l’autore di Il figlio della fortuna (E/O), nato in Germania un anno prima del suo eroe, cresciuto all’Est negli anni della divisione, e considerato tra i più importanti scrittori tedeschi del dopoguerra — quando il bambino nacque, una settimana dopo la fine del conflitto, c’era una tale confusione nel Paese che alla madre — altro colpo di fortuna — riuscì di confondere le carte e di registrarlo all’anagrafe con il proprio nome di ragazza, Boggosch, estinguendo così la discendenza del nazista Gerhard Müller.
Fu tuttavia un trucco dal valore puramente nominale. Perché per Konstantin quel padre assente, rinnegato, inesistente, cresce via via come l’ombra lunghissima che lo perseguiterà ovunque, assume le proporzioni soprannaturali di un fantasma, l’aura di una creatura fiabesca, un principe del male, le fattezze di un angelo sterminatore, spietato, luciferino. In sogno e anche a occhi aperti, nell’immaginazione, gli appare come un uomo elegante, vestito di un’uniforme bianca con le spalline d’argento, che cammina disinvolto, leggero, danzante, con la spensieratezza della cattiveria pura, in mezzo a un boschetto di betulle. Si fa strada tra i giovani alberi colpendoli con un frustino e procede sorridendo, irresistibile, noncurante dei rami spezzati e delle foglie cadute che lascia dietro i propri passi.
La visione che apre il romanzo, e che accompagnerà «costantemente» Konstantin — nomen omen, o almeno è una delle chiavi per decifrare questo sciagurato personaggio baciato dalla fortuna, una vittima che brilla di tenacia e ostinazione — nel corso delle sue peregrinazioni per l’Europa e attraverso sessant’anni di storia tedesca, ha un che di magico. Ha la potenza maliosa della paura, delle inquietudini inestinguibili.
Quello della memoria di una colpa non commessa, di un’onta imperdonabile perfino agli innocenti è un cruccio che segna la coscienza tedesca fino a oggi. I personaggi di questo romanzo, sottolinea esplicitamente Hein nell’epigrafe, «non sono frutto della fantasia. La storia narrata si basa su fatti reali». Non c’è invenzione insomma: historia magistra artis e la vita, con le sue fatalità, ha tutto da insegnare alla letteratura. Questo è l’assunto che sembra sottendere da cima a fondo il fluviale romanzo con cui per la seconda volta dopo Terra di conquista (E/O, 2005) Hein fa i conti con la lacerante storia recente del proprio Paese. Lo fa con naturalezza, senza pathos né drammi, come fosse un atto dovuto. Racconta con il piglio del testimone distaccato, del cronista spassionato. Il suo tono è pacato, perfino dimesso. La sua prosa è semplice (arte suprema), scorre via velocissima come un fiume, appunto, di ampia portata: se ne può contemplare ipnotizzati il corso tranquillo per ore, non ci sono increspature, rapide, salti fragorosi, eppure si avverte il segreto di una forza trascinante, una corrente sommersa, un gorgo imprevedibile.
Con il cuore sospeso, dunque, si seguono le peripezie di Konstantin, personaggio indimenticabile, in fuga da padre e patria. Né Marsiglia né Praga né Genova sapranno offrirgli un riparo: la nostalgia della madre lo richiamerà persino dai lidi meridionali nella fredda terra d’origine, e proprio nel giorno della costruzione del Muro di Berlino (ma la morte di lei, qualche anno dopo, lo sottrarrà ai cannoni della primavera cecoslovacca). Né la scuola né lo sport né il cinema (per il quale il ragazzo nutre una passione in Francia, negli anni della Nouvelle Vague) potranno dargli conforto, anche perché lo spettro del padre che continua a saltar fuori gli impedisce di far parte di qualsiasi classe regolamentare, squadra o troupe.
Così, rassegnato e tuttavia non arreso, finirà col vivere una vita non sua, con il celare in trent’anni di matrimonio la propria vera identità alla moglie adorata, col sentirsi un altro da sé stesso, un estraneo al personaggio stimato, «fortunato», insospettabile — il preside di una scuola — che era diventato. Col chiudere dentro di sé il proprio segreto serrando a denti stretti il rimorso che lo affligge come un peccato originale. Alla studentessa che, quando lui è ormai in pensione da un pezzo, gli chiede una lunga intervista, il racconto di una vita esemplare, da pubblicare in un articolo innocuo sul giornalino della scuola, Konstantin non si concede. Non voleva «smuovere vecchie pietre»: «Non voleva spostare nulla, vedere i vermi che sarebbero strisciati fuori». I ricordi tuttavia lo travolgono in un flusso di coscienza lungo oltre 400 pagine. E anche il più placido e tranquillo dei fiumi va ad agitare oscuri fondali...