Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

IL TASSISTA CHE SUBISCE IL FASCINO DELLE DICIOTTENNI

Autore: Gianluca Spera
Testata: Mister Hopes Stories
Data: 7 marzo 2017
URL: https://misterhopes.wordpress.com/2017/03/06/il-tassista-che-subisce-il-fascino-delle-diciottenni/

La buona letteratura permette sempre di penetrare territori inesplorati, di decifrare – o almeno provare a farlo – realtà complesse che non è possibile semplificare o affidare a visioni manichee. Sovente, ci si adopera alacremente nella costruzione di una sciocca suddivisione tra buoni e cattivi che non giova certo alla comprensione né alla verità dei fatti. Si preferisce prendere delle posizioni anche a costo di forzare la logica, di impantanarsi in amletiche contraddizioni o di apparire ridicoli nel momento stesso in cui si vuole sollecitare i buoni sentimenti altrui o ingenerare ingiustificati sensi di colpa. Non c’è bisogno di schierarsi in ogni occasione perché, così facendo, si finisce per sostenere una bandiera e non un principio, una delle fazioni in lotta e non un ideale, un interesse sottaciuto e non un diritto. A volte, prevale semplicemente l’irrefrenabile istinto a contrapporsi a qualcosa che, pregiudizialmente, si detesta o si combatte, finendo per perdere completamente la bussola e i lumi della ragione. In certe occasioni, bisognerebbe fermarsi ad ascoltare, fare lo sforzo di capire come si arriva a un punto di ritorno, quali sono le cause che fanno precipitare le cose e come ci si abitua a vivere come normali situazioni che sono assolutamente anormali o come le si subisce senza potersi sottrarre ad un destino meschino.

Etgar Keret, per esempio, è uno che racconta la realtà israeliana senza infingimenti, utilizzando con sapienza la potente arma del sarcasmo, la maneggia abilmente sfociando, di continuo, nel surrealismo, deformando la realtà, senza mai perdere la schiettezza e la sincerità e soprattutto restituendo tutta la crudeltà e la difficoltà del momento. Uno dei suoi racconti più belli, dal titolo stravagante e spiazzante (“Le tette di una diciottenne”), contenuto nell’omonima raccolta, già pubblicata con il titolo più asettico “Io sono lui”, è l’apoteosi della genialità, un monumento alla fantasia che disinnesca – o perlomeno ci tenta – le inquietudini esistenziali. La vicenda narra di un tassista che se ne va in giro a strombazzare nei confronti di giovani ragazze a passeggio, magnificandone le fattezze con il cliente di turno, costretto a subire ogni sorta di grossolanità o commento volgare. Poi, all’improvviso, la radio annuncia la notizia di un elicottero precipitato. La cosa lo allarma per il fatto che la moglie lo assillerà al telefono per sapere se il figlio militare è in qualche modo coinvolto. L’estenuante conversazione con la moglie oscilla tra rassicurazioni e apprezzamenti sulle forme delle diciottenni. Eppure, le lacrime, nonostante lo scampato pericolo, tradiscono l’apparente calma del tassista. La sua innocua trivialità, i vaneggiamenti di un uomo in là con gli anni sono soltanto l’illusorio strumento per anestetizzare la tensione, il timore, quell’assurda normalità fatta di bombe, razzi, morti e feriti, bollettini di guerra.

Keret esibisce la paura, forse il meno nobile tra i sentimenti umani ma sicuramente il più sincero perché spontaneo ed immediato, sviscerato senza mediazioni, in tutte le sue forme o manifestazioni nelle quali le identità si confondono e non conta più se sei israeliano o palestinese perché si è comunque vittime di una sorta di inferno dantesco senza via di uscita. La visione futile della quotidianità enfatizza la paradossale contrapposizione degli opposti estremismi. In questo vortice di allucinanti nevrosi, gli uni e gli altri, la gente comune, quella su cui i conflitti incidono maggiormente, accanendosi con la barbarie che ogni conflitto implica, ambiscono ad avere la possibilità di compiere gesti normali, abitudinari, scontati nel resto del mondo, come poter andare al cinema, trascorrere una serata al ristorante, prendere l’autobus in tranquillità o vivere in un territorio che non sia militarizzato. I racconti di Keret sono quasi un esorcismo contro la depressione, la satira illuminante è l’antidoto contro la prostrazione che induce ad arrendersi o ad omologarsi passivamente. Ne “Le tette di una diciottenne” come in “Pizzeria kamikaze” o in “Gaza Blues”, scritto a quattro mani con il collega palestinese Samir El-Youssef, non contano né la guerra in sé, né i torti o le ragioni che, come il bene e il male spesso sono sfumati e separati da una linea molto sottile, inconfondibile e facile da oltrepassare, ma gli effetti distorti che tutte queste mostruosità producono sulle persone, le idiosincrasie che generano, il desiderio di fuga dalla realtà quotidiana, più che da un luogo fisico, a cui inducono, nel disperato tentativo di affrancarsi da una serie di atroci consuetudini.

Chi non vive in una precaria tregua, chi non trema o suda freddo mentre viaggia sui mezzi pubblici, chi non scruta il cielo con orrore temendo l’arrivo di un razzo o di una bomba dovrebbe approcciarsi con maggiore prudenza a certe questioni. Altrimenti pure il pacifismo si trasforma in una barzelletta che non fa ridere, diventa un modo per ammazzare la noia estiva quando sui social network abbondano signorine in abiti discinti o spiagge al tramonto con immancabile contorno di aperitivi di stagione.

«Ma la cosa importante non è quello che la gente ti dice in faccia, bensì quello che ti dice alle spalle». Infatti, molto spesso, ci si traveste, ci si mostra per quello che non si è ma per quello che si vuole esibire in pubblico, per il personaggio che si vuole costruire su misura. Si fa finta di commuoversi per i bambini palestinesi ma non si tollera il “vu cumprà” – il copyright è del ministro Alfano – nelle località di villeggiatura, ci si riempie la bocca di belle parole ma non ci si accorge di spalleggiare organizzazioni terroristiche, si grida al complotto quando la testa tagliata è quella del presunto nemico, si ignorano le violazioni di sovranità di Paesi indipendenti, si trascura la tribale esibizione di prigionieri di guerra. Ci si indigna a convenienza, secondo furbesche necessità o le mode del momento. Con un atteggiamento, ben al di là della disonestà intellettuale, si girano e rigirano i fatti a proprio piacimento incuranti del rischio di precipitare nel ridicolo. Si pretende di imporre una visione unilaterale, di aver il monopolio del dolore quando basterebbe, per mettere in discussione le proprie convinzioni, sbirciare tra le pagine di Keret. O chiedere un passaggio al tassista che subisce il fascino delle diciottenni.