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“Shalom, cinquant’anni per ricordare che con Israele possiamo difenderci”

Autore: Ariela Piattelli
Testata: La Stampa
Data: 8 aprile 2017

Da bambina scrisse una lettera a se stessa: «Cara Lia, ricordati che da grande devi fare la scrittrice». Lia Levi aspettò più di sessant’anni prima di diventare una tra le voci letterarie della memoria dell’ebraismo italiano. Nata nel ’31 a Pisa da una famiglia piemontese, con l’emanazione delle leggi razziali del ’38 vive le conseguenze dell’esclusione degli ebrei dalla vita pubblica. E di quel dramma racconterà nei suoi libri. Nel ’67 fonda il mensile di informazione e cultura ebraica Shalom, e dopo una lunga carriera giornalistica, con il suo primo romanzo Una bambina e basta, pensato per gli adulti, Lia conquista inaspettatamente l’attenzione dei più giovani, a cui dedicherà molte opere.

Come ha iniziato a conoscere il mondo?

«La mia era una famiglia ebraica borghese, più legata alle tradizioni che alla religione. Ero una bambina timida e a Torino frequentavo una scuola pubblica. Un giorno mia madre mi disse che non potevo più andarci. Erano state emanate le leggi razziali. Non mi spiegò le ragioni, ma nell’atmosfera di artificiosa normalità che celava ciò che stava accadendo, io percepivo l’angoscia. Così ho conosciuto il mondo. Poi ci spostammo a Roma, con l’8 settembre, i miei genitori decisero di nascondere me e le mie sorelle in convento. Ci restammo sino alla Liberazione».

Ed è sulla memoria delle leggi razziali che lei torna costantemente nei suoi libri.

«L’ispirazione arrivava da li. Per questo sono diventata scrittrice, dovevo raccontare quella storia. Ho iniziato con Una bambina e basta, dove affronto anche il tema della difficoltà di comunicazione tra adulti e bambini. È un breve libro con la grande storia nelle pieghe, e ha fatto sì che ci fosse un processo di identificazione dei ragazzi. Con il mondo dei giovani c’è stato un avvicinamento naturale. Poi con loro è stato un crescendo».

Nel ’67 ha fondato «Shalom», che ora compie cinquant’anni. Come nacque quell’esigenza?

«Lavoravo all’ufficio stampa della Comunità Ebraica di Roma e con lo scoppio della Guerra dei Sei Giorni vivemmo un periodo di grande angoscia. In molti temevano che Israele fosse spazzata via. Alberto Baumann lanciò l’idea di fondare un giornale per spiegare le ragioni dello Stato d’Israele. Così nacque Shalom, che diressi per trent’anni, e a cui collaborarono, oltre a una schiera di giornalisti promettenti, anche firme affermate, come Aldo Garosci, Giorgio Israel, Tullia Zevi, Alberto Nirenstein, e Arrigo Levi. L’anima politica di Shalom fu Luciano Tas, il mio compagno di vita. È stato tra le personalità più significative della storia ebraica italiana».

Quali sono i fatti più importanti raccontati da «Shalom» negli anni della sua direzione?

«L’operazione Entebbe, quando gli israeliani liberarono gli ostaggi fu un grande riscatto per gli ebrei nel mondo. Titolammo “Le selezioni di Auschwitz sono finite ad Entebbe”, era un modo per sottolineare che con lo Stato d’Israele gli ebrei potevano difendersi. Poi raccontammo la ferita dell’attentato alla sinagoga di Roma nell’82. Shalom fece sentire la sua voce, lanciando un “J’accuse” a gran parte del mondo politico e della stampa italiana, che contribuirono all’atmosfera antisemita e antisionista in cui si consumò l’attentato. La rivista aveva anche l’obiettivo di occuparsi di cultura: fummo i primi a dare spazio ai grandi scrittori ebrei: Roth, Singer, Yehoshua e tanti altri».

Lei ha iniziato a scrivere libri a più di sessant’anni. Perché non l’ha fatto prima?

«Da bambina leggevo moltissimo e tutto. Quando scrissi la lettera a me stessa, avevo paura che i libri nel mondo non bastassero. Ho scritto sempre narrativa, ma la tenevo per me. Facevo parte della schiera degli scampati, e mi sembrava blasfemo raccontare la mia storia, drammatica ma non tragica. Poi ho iniziato a pubblicare negli Anni 90 quando in Italia si tendeva a minimizzare il ruolo delle leggi razziali, che portarono alla Shoah. Questo mi spinse a raccontare la mia memoria».

Quale memoria vuole tramandare?

«È la memoria di un ebraismo sopraffatto dalle leggi razziali, dove incombe sempre la Shoah. Non l’ho vissuta, ma ne conosco l’atmosfera, la scure che piombò su di noi. Attingo al pozzo della mia memoria che non ha fondo, e così prendono forma i miei personaggi, da Dino, professore ebreo specializzato in Pindaro (L’albergo della Magnolia), a Regina e Corinna (Tutti i giorni di tua vita), donne ebree degli Anni 20, e a Leone, un bambino timido come me, che con coraggio fa un salto per salvarsi dai nazisti».

Pensa che con il Giorno della Memoria si corra il rischio di una banalizzazione del ricordo?

«Io sono in polemica con tutti quelli che criticano il giorno della memoria. Secondo me è molto importante, perché è un modo di elaborazione, in cui si inseriscono ogni anno giovani e narrazioni sconosciute. Penso ad esempio al cinema che ha elaborato in questi anni molte storie nuove sulla Shoah. La banalizzazione è un rischio, è vero, ma anche quella si combatte con la conoscenza e con l’elaborazione. Gli incontri con le scuole sono diventati una dimensione della mia vita, e parlo con giovani che vogliono conoscere la storia».

Adesso sta lavorando ad un nuovo romanzo. Può anticiparne il tema?

«Sto scrivendo un romanzo liberamente ispirato a Luciano Tas. Era un carattere poliedrico. Da bambino era un piccolo genio, saltò due classi e andò avanti. Fu anche un oppositore di natura. Per me è una sfida letteraria, perché mira a ricreare la sua complessità. La chiave di racconto è legata ai problemi del nostro tempo: si tratta dell’eterno dilemma di chi è in grave pericolo, è meglio restare e nascondersi o fuggire al di là della linea di confine?».

Che cosa rappresenta l’ebraismo italiano oggi?

«Ciò che è sempre stato. L’ebraismo è il pepe della società in cui è vivo. La discussione è il suo elemento caratterizzante, e contribuisce alla vitalità culturale di un Paese. Come spiega il grande rabbino britannico Jonathan Sacks, l’ebraismo è una religione fatta di dibattiti e domande».