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SI RISTAMPI #11: VALERIO AIOLLI, LUCE PROFUGA

Autore: Martino Baldi
Testata: Poetarum Silva
Data: 18 maggio 2017
URL: https://poetarumsilva.com/2017/05/18/valerio-aiolli-luce-profuga/

Ha senso recensire un titolo di oltre quindici anni fa, per giunta un romanzo che all’epoca non ebbe una grandissima eco e da tempo è fuori catalogo? La mia risposta, da bibliotecario, è: sicuramente sì. Il lavoro che fanno le biblioteche è quello di mantenere vive tutte le specie. Le biblioteche sono il difensore principale della bibliodiversità, soprattutto in un’epoca in cui i meccanismi della distribuzione mettono in discussione la sopravvivenza stessa di molti piccoli editori e in cui le esigenze di comunicazione relegano la maggior parte dei libri nei magazzini (e spesso ciò significa nel dimenticatoio perenne) già poche settimane dopo i fasti di un mese di vetrine e recensioni, per coloro che almeno se ne sono avvantaggiati. Ma non sarebbe giusto che a questo lavoro di “manutenzione” dell’habitat biblionaturale partecipassero tutte le componenti che ruotano intorno al libro? Eppure a volte l’impressione è che a nessuno in fondo stia a cuore il destino dei libri usciti dallo scaffale delle novità, nemmeno a volte agli stessi editori che evitano di mandare in ristampa perfino libri che promettono soddisfazioni a distanza di anni dalla loro scomparsa dal catalogo. Un esempio per tutti è quello di Gli interessi in comune di Vanni Santoni, la cui vicenda è brevemente raccontata dallo stesso Santoni su Facebook

Quindi eccoci, nel nostro piccolo, a tirare fuori dal cilindro questo Aiolli millesimato 2001, che sotto il velo della polvere degli anni ci sembra abbia tuttora qualcosa da dire, forse anche perché dalla letteratura coeva e successiva ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa di più, per quanto riguarda il racconto delle mutazioni della vita della provincia italiana degli ultimi decenni, con l’accelerazione tecnologica, l’arrivo delle ondate migratorie, l’ulteriore trasformazione degli spazi sociali e dei rapporti interpersonali. In particolare intorno al fenomeno dell’incontro tra la quotidianità stratificata della vita di provincia italiana e il bagaglio di diversità ed esperienze estreme dei nuovi migranti, soprattutto quelli dell’est, poco mi è capitato di leggere che non risultasse un po’ troppo di servizio, che non avesse il sapore di una interpretazione riduzionistica, troppo politica o sociologica o ideologica. Senza compiere una ricerca esaustiva, ricordo a memoria I fannulloni di Lodoli, del 1990 ma poi per diversi anni davvero poco che andasse fuori dal solco o più in profondità rispetto al fatto riportato dal giornalismo.

Fra le felici eccezioni, posso annoverare Luce profuga, secondo romanzo di Valerio Aiolli, che inaugurò con questo titolo una sua vena più letteralmente “realistica”, ad arricchimento di una tavolozza stilistica che nell’esordio di Io e mio fratello aveva già dato prova di saper raccontare un paese che stava cambiando, ma in quel caso per mezzo della forma letteraria dello straniamento, ovvero attraverso lo sguardo di un bambino.

Il plot di Luce profuga è semplice. Pietro ha ereditato dal padre una ditta di vendita di legname e, insieme con la ditta, il suo personale storico. Minato da ombre e debolezze oscure, Pietro si fa convincere da un amico sacerdote ad assumere Goran, un profugo bosniaco. Il racconto, ambientato nella piana di Sesto Fiorentino, si snoda nel seguire le diversi fasi dell’integrazione tra il personale preesistente e il nuovo operaio, estremamente efficiente ma anche estremamente silenzioso e perturbante, intrecciandosi con le difficoltà economiche dovute ai mutamenti del mercato e con le scelte intorno alla tecnologia da integrare nei processi produttivi e delle relative conseguenze. Parallelamente si sviluppa il racconto della vita privata di Pietro (anch’essa non esente da conseguenze derivanti dall’incontro con Goran), una esistenza che si può considerare quasi esemplare nell’epoca della “liquidità”: un matrimonio alla deriva, una paternità lacunosa, un rapporto forse mai risolto col padre, un enorme rimorso che brucia i pensieri.

Luce e ombra si confondono in tutti i protagonisti di questo incontro tra due mondi. Ed in questo è calibratissima la scrittura di Aiolli, che mostra qui un vero talento per un’oggettività non astratta, nella ricerca di una equidistanza dalle parti, riuscitissima nonostante la scelta di raccontare sì in terza persona ma attraverso la prospettiva di Pietro (in narratologia si direbbe che il racconto è “focalizzato” su Pietro), spingendosi finanche all’uso dell’indiretto libero e in alcune pagine perfino di un flusso di coscienza, indovinatissimo, a spezzare il distacco del racconto là dove non poteva essere altrimenti, nella narrazione delle vicende più intime.

Proprio attraverso la prospettiva di Pietro la scrittura può restituire l’estrema indecifrabilità di un mondo all’altro e insieme una impermeabilità che però è solo apparente. Niente sembra disponibile a cambiare eppure tutto cambia da questa collisione, e tutto cambia non tanto, o almeno non solo, nelle direzioni fin troppo facilmente calcate dai rotocalchi televisivi ma soprattutto nei piccoli dettagli delle esistenze individuali, a partire dalle mutazioni che siamo disposti ad accettare o che comunque, volenti o nolenti, subiamo una volta di fronte all’ingresso dell’altro nella nostra sfera, che da quel momento non è più la stessa. Per rispecchiamento e per contrasto, per accoglienza e per resistenza, l’esistenza di Pietro viene in questo senso rivoluzionata dall’incontro con quella dello straniero ed è bravissimo Aiolli a incardinare il romanzo su questo genere di aspetti e di evoluzione. È per questo che Luce profuga anche ad oltre quindici anni dalla sua uscita mantiene un valore letterario che non sembra consumato o invecchiato dal passare del tempo e ci ricorda l’opera di alcuni sottovalutati artigiani della narrativa italiana – e il primo nome che mi viene in mente a tal proposito è Giovanni Arpino – che, piuttosto che far prevaricare una propria poetica, hanno saputo raccontare la realtà affidandosi al proprio eclettismo e alla propria sensibilità di lettura “dentro” gli avvenimenti.