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Hein: la speranza è consapevole

Autore: Alessandro Zaccuri
Testata: Avvenire
Data: 21 maggio 2017

«Meglio non esagerare con l’entusiasmo», consiglia quietamente Christoph Hein. «Anche quando si tratta di frontiere da attraversare», aggiunge con un’allusione al tema del Salone del Libro 2016: Oltre il confine, appunto. Lo scrittore tedesco conosce bene l’argomento. Nato nel 1944 in Slesia, nella zona che al termine della guerra fu occupata dalla Polonia, nei suoi romanzi ha esplorato le contraddizioni e i drammi della Germania contemporanea. Non appena si accenna al tema dei profughi, lui richiama alla memoria un suo romanzo del 2004, Terra di conquista (in Italia è pubblicato da e/o, come il resto della sua opera), nel quale a ritrovarsi impoveriti e senza casa sono proprio gli sfollati della Slesia, niente affatto bene accolti dai compatrioti della neonata Repubblica democratica tedesca. «Ancora oggi, girando da quelle parti, capita di sentir dire che un vicino di casa non è "di lì" spiega -, perché è nipote di un rifugiato del dopoguerra. Capisce? Siamo alla terza generazione, ma la diffidenza rimane».

Al Salone Hein ha presentato in anteprima il suo nuovo romanzo, Trutz, ancora inedito nel nostro Paese, ed è tornato a riflettere sui personaggi e le vicende di Il figlio della fortuna (traduzione di Monica Pesetti, pagine 432, euro 19,50). Un’altra storia di divisioni, frontiere e memorie difficili da rielaborare. «Konstantin, il protagonista, non riesce a liberarsi dal ricordo del padre, che non ha mai conosciuto spiega lo scrittore -. Dell’uomo sappiamo che è stato un criminale nazista, ma in effetti il libro non ci dice molto altro di lui. Le colpe del padre, che pure restano indiscutibili, sono in qualche modo marginali. Quel che davvero conta è il modo in cui Konstantin cerca di venire a patti con un passato che, pur non appartenendogli, lo tormenta».

E come se la cava?

«Diventando un ottimo educatore, intanto. Può sembrare strano che Konstantin, cresciuto senza padre, si trasformi in un insegnante tanto attento e competente, ma la mia convinzione è che la sua identità sia stata forgiata da quella assenza. Proprio perché non vuole che altri si trovino nella sua stessa condizione, Konstantin fa di tutto per essere, nei confronti degli allievi, il padre che lui stesso avrebbe desiderato incontrare. La spinta del passato non lo porta a ripetere gli errori di cui è stato vittima, ma a interrompere la catena di sofferenze che lo ha afflitto per tutta la vita».

La dimensione della speranza, in effetti, è molto evidente nel romanzo.

«Era quello che volevo trasmettere. Non importa quanto cupa sia la vicenda che si racconta, l’importante è che alla fine la speranza si faccia strada. Per molti aspetti Il figlio della fortuna è un libro tutt’altro che consolatorio. La famiglia di Konstantin, per esempio, è spaccata al suo interno, come spesso accadeva nella Germania postbellica. Lui e la madre vogliono scrollarsi di dosso il peso del nazismo, mentre suo fratello Gunthard e lo zio paterno Richard si ostinano a proclamare un patriottismo estraneo a ogni forma di pentimento. Uno schema simile si ripeteva spesso, all’epoca, ma non rappresenta un’esclusiva della Germania. È abbastanza frequente che le divisioni della società si ripercuotano sulle famiglie. Da quanto ne so, sta capitando anche nell’America di Trump».

La rappacificazione è possibile?

«Sì, anche se costa fatica. Nel suo viaggio attraverso l’Europa Konstantin cerca, in modo più o meno razionale, una figura paterna e a un certo punto la trova a Marsiglia, in un libraio antiquario che ha combattuto nella Resistenza e che forse si è addirittura imbattuto nel famigerato padre del ragazzo. Il libraio prende a benvolere Konstantin, lo aiuta e lo protegge. Ma per sua stessa ammissione non gli avrebbe neppure rivolto la parola se si fosse accorto che si trattava di un tedesco. Il pregiudizio, nonostante tutto, è duro da sconfiggere. Dobbiamo ammetterlo non per arrenderci, ma per affrontare la realtà in modo più efficace».

Senza esagerare con l’entusiasmo?

«Esattamente. Nei miei libri mi sono trovato spesso a rievocare i momenti della storia tedesca ed europea in cui la società era attraversata da una specie di esaltazione collettiva. Comprensibile, non si discute, come all’epoca della caduta del Muro di Berlino o della riunificazione tra Est e Ovest. Ma non è di questa euforia che abbiamo bisogno. Di una normalità più consapevole, semmai».

Anche in materia di immigrazione?

«Da cittadino tedesco trovo ammirevole la politica adottata dal mio Paese. La risposta della popolazione, purtroppo, non è stata altrettanto positiva. L’intolleranza esiste anche in Germania, posso testimoniarlo di persona».

In che senso?

«Sono tra i fondatori di un’associazione che si occupa di accoglienza dei minori migranti non accompagnati. Progetto molto apprezzato, ma non da tutti, come ho avuto modo di constatare quando ho trovato la mia automobile con le gomme squarciate. Non voglio drammatizzare, eppure non posso fare a meno di credere che episodi del genere siano l’avvisaglia di un fenomeno più vasto e preoccupante. Siamo ancora agli inizi, del resto. Quando il cambiamento climatico si manifesterà in tutta la sua forza devastante, i flussi migratori diventeranno inarrestabili. Il mio timore è che l’intolleranza cresca in proporzione».

La preoccupa il ritorno di populismi e nazionalismi sulla scena poltica?

«In generale sì, anche se in Germania, ora come ora, il rischio è meno evidente che altrove. Il senso di colpa nei confronti del nazismo agisce ancora da elemento inibitore, ma basta guardare al clima che si respira in Polonia, in Ungheria o nella stessa Francia per rendersi conto di quanto sia consistente la minaccia. In quei Paesi l’antisemitismo stesso non è più considerato un tabù, a differenza di quel che accade in Germania, dove ancora si prova vergogna a manifestare avversione o sospetto nei confronti degli ebrei. E non va trascurata la componente economica: un buon livello di benessere personale e collettivo può essere un deterrente nei confronti dell’intolleranza ma, al contrario, una crisi particolarmente grave rischia di accelerare i processi di esclusione. Non lasciarsi accecare dall’entusiasmo è, a mio avviso, il modo migliore per conservare la speranza».