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Niente, più niente al mondo. La periferia torinese di Massimo Carlotto

Autore: Alessandro Falanga
Testata: Diario di Rorschach
Data: 15 giugno 2017
URL: https://diariodirorschach.com/blog/2017/06/15/niente-piu-niente-al-mondo/

Due dei grandi mali della società contemporanea sono, senza dubbio, l’apparire e la smania di possedere quante più cose possibili.

Questi elementi, che negli anni hanno creato dei veri e propri mostri nell’Italia di oggi, sono oggetto del romanzo breve di Massimo Carlotto Niente, più niente al mondo (Edito e/o, Collana Assolo, 2004).

Attraverso una narrazione semplice e diretta, in cui l’autore sembra porsi un duplice obiettivo – quello di osservare e vagliare la società di oggi con occhio critico -, Carlotto riesce non solo ad esprimere una determinata condizione sociale ma anche un disagio derivante dalla stessa, modellato su stereotipi della quotidianità.

Il filo che unisce l’intera storia di Niente, più niente al mondo parte dallo sfogo di una madre, protagonista in prima persona dell’arco narrativo, immersa nella dura vita di tutti i giorni.

Le parole, frutto di diverse riflessioni del personaggio sulla realtà, capovolgono totalmente la classica fiera visione delle periferie operaie delle città, per proiettarla in un nuovo tipo di vita fondato sull’invidia di ciò che non si ha.

L’odio provato per quel tipo di esistenza e la voglia di sbarcare il lunario in qualunque modo, trasforma questa madre in un pessimo esempio di “angelo della casa”, la cui unica prospettiva si fonda sul matrimonio di sua figlia con un benestante locale.

A tutto ciò, inoltre, si aggiunge anche la convivenza con i nuovi poveri, gli immigrati residenti nel suo stesso quartiere – che sfocia nel consueto atteggiamento del non sono razzista, ma – dove, più che una vera e propria motivazione, si inserisce una chiaro tentativo di isolare l’altro perchè diverso.

Niente, più niente al mondo, oltre ad un ritmo sostenuto – che incoraggia la lettura tutta d’un fiato – si distingue tanto per l’incisività dello scritto, in cui è inserita un’ampia analisi di ciò che sta diventando la nostra società, quanto per il messaggio che emerge di volta in volta e che si impone con prepotenza nel finale.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’utilizzo del discorso in prima persona risulta essere la giusta tecnica per un romanzo che ha il compito di descrivere l’ambientazione e svilupparne un determinato contesto all’interno della stessa.

Questo grido di dolore, concepito da una protagonista che coglie esclusivamente un mondo fondato sull’apparire e sull’avere, ben si presta alla narrazione in quanto riesce a scandire tempi e visioni del personaggio nel contesto quotidiano e, allo stesso tempo, descrivere in maniera semplice il pensiero dell’italietta che sfugge dalla realtà delle cose.

Proprio questo elemento si collega alla seconda serie di osservazioni; le rimostranze, nei confronti della figlia “degenere” e del marito “impotente”, rimarcano sia la morte di una determinata coscienza di classe, sepolta dopo le tante vicissitudini lavorative, che la fuga dal mondo che ci circonda, considerato brutto ed insicuro, verso ciò che bello e mondano, ma irragiungibile.

Il dato, sottolineato anche dalle pagine del diario della figlia, tendono ad evidenziare l’amara realtà italica basata su mezze verità, furbizia e tutti quei mezzucci che, pur arricchendo in certi casi la persona, la catapultano in una esistenza frivola e senza alcun significato.