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Riflessioni sociolinguistiche a margine de L’amica geniale di Elena Ferrante

Autore: Andrea Villarini
Testata: Arcade - Stanford
Data: 21 agosto 2017
URL: http://arcade.stanford.edu/content/riflessioni-sociolinguistiche-margine-de-l%E2%80%99amica-geniale-di-elena-ferrante-0

1. L’italiano e il dialetto: due lingue per un paese solo

L’intera quadrilogia de L’Amica geniale è un trattato acutissimo sulla relazione esistente, dagli anni del dopoguerra a oggi, tra lingua italiana e dialetto (in questo caso, quello napoletano). In essa, infatti, si ritrovano esemplificate precise rappresentazioni di come in questi anni si sia evoluto il rapporto tra l’idioma nazionale e gli idiomi locali.

Naturalmente, non è questa la sede per dilungarci su questioni sociolinguistiche che hanno interessato la storia del nostro paese; basti ricordare che l’Italia nasce come un paese plurilingue e pluriculturale, fatto di tanti idiomi che nei vari punti della penisola svolgevano tranquillamente tutte le funzioni comunicative che adesso affidiamo all’italiano. Dall’unità d’Italia a oggi sono passati 155 anni e in questo tempo, faticosamente e grazie a tanti fattori,1 gli italiani sono passati da un paese a stragrande maggioranza dialettofona a paese a maggioranza italofona, dove però i dialetti, lungi dall’essere scomparsi, continuano ad essere utilizzati, seppure in minori contesti rispetto al passato e con funzioni comunicative modificate. Come ognuno di noi ben sperimenta viaggiando per la penisola, quasi in ogni luogo troviamo una parlata, certi modi di dire, pronunce, tradizioni, culture che poco o nulla hanno a che fare con la lingua e cultura italiana standard. Potremmo dire, in altri termini, che l’Italia in tutti questi anni sia passata dall’essere un paese dialettale all’essere un paese polarizzato tra usi dell’italiano standard da una parte e usi dialettali dall’altra. Due poli però non separati distintamente, ma attraversati da un continuum di situazioni dove le parlate locali e la lingua nazionale si interscambiano o dove si assiste a fenomeni di code-switching o code-mixing tra i due idiomi.

Elena Ferrante con la sua quadrilogia ci mostra, a volerne individuare le tracce, le origini di questo processo linguistico, gli esiti e le difficoltà intercorse per il suo compimento. Si ha quasi l’impressione leggendo l’opera che ella (egli? Loro?) si diverta (divertano?) a lasciare al lettore indizi lungo il tragitto dai quali è possibile, rimettendoli tutti insieme e riuscendo a interpretarli, ricomporre la storia linguistica nazionale.

2. Lingue citate, lingue evocate, lingue esibite

La presenza del dialetto napoletano lungo tutta la quadrilogia è fortissima. Viene quasi da collocarlo tra i protagonisti dell’opera, al pari del rione Il libro in questione dove Elena e Lila crescono e vivono. Del rione condivide anche il modo in cui esso viene presentato dalla voce narrante. Ambedue, infatti, non solo sono presenti in continuazione lungo tutta l’opera, ma svolgono funzioni essenziali per descrivere il carattere dei personaggi, il loro modo di agire, le motivazioni legate a certe loro scelte. A ben vedere, sono proprio loro due che legano indissolubilmente per tutta la vita Elena e Lila.

La loro presenza, però, è solo evocata. Del rione sappiamo di uno stradone, di una galleria, della vicinanza di una stazione, della piazza della chiesa e di tanti luoghi ancora ai quali viene fatto cenno più volte per ambientare le scene dell’opera, ma non si sa di quale quartiere di Napoli si tratti esattamente,2così anche gli usi dialettali dei protagonisti vengono evocati in continuazione, ma mai esibiti esplicitamente. Sappiamo, adesempio, che alcuni personaggi parlano solo in dialetto in ogni situazione comunicativa, anche in quelle più formali generalmente riservate all’italiano, eppure mai si sceglie di presentare un dialogo intero in dialetto. Diesso avvertiamo la forza, a volte la violenza, ma quasi mai ci è dato leggerlo.

Prendiamo ad esempio uno dei primi passi dell’opera in cui si fa accenno agli usi linguistici, nella quale Elena e Lila giocano in cortile con le loro bambole:3

Se lei prendeva un tappo e lo metteva in testa alla sua bambola come se fosse un cappello, io dicevo alla mia, in dialetto: Tina mettiti la corona da regina se no prendi freddo (Ag, 26).

Siamo all’inizio della storia, nella Napoli dei rioni tra gente povera nell’immediato dopoguerra. L’Italia si esprime in dialetto e la lingua italiana per questa fascia di persone è una vera lingua straniera. È normale che ci si esprima in dialetto, ma la Ferrante, insieme a queste considerazioni, che renderebbero comunque obbligatoria la lingua da usare in quel momento per far parlare le due protagoniste, usa anche esplicitamente la parola dialetto, come a non voler lasciare spazio all’immaginazione. Eppure quando poi scrive la battuta, la scrive interamente in italiano.

Questo espediente espressivo, che – come già detto – si ritrova lungo tutta l’opera, fa della presenza del dialetto una presenza forte (in alcuni passaggi, abbiamo visto, necessaria), ma quasi mai mostrata apertamente e compiutamente. Noi lettori veniamo resi perfettamente consapevoli della presenza degli usi dialettali nella Napoli di quegli anni, senza mai avere la possibilità di notare questi usi concretamente realizzati nelle parole scritte dalla Ferrante. È, appunto, come avviene per l’ambientazione fisica dell’opera: la Ferrante ci “fa vedere” e ci “fa camminare” tra i vicoli e le case di un rione, ma senza mai arrivare a dirci di quale luogo di Napoli esattamente si tratti. Il suo è un realismo allusivo che sceglie di non mostrarci per intero la realtà, senza però perdere nulla della sua capacità di ricostruire un ambiente o un dialogo.

Solo in pochissime situazioni il dialetto irrompe in superficie tra le righe dell’opera. Avviene quando si tratta di trascrivere i momenti nei quali i protagonisti si lanciano insulti tra di loro (strunz, càntaro, ricchione, tàmmaro, uommen’e mmerd). La cosa interessante è vedere come anche in questi frangenti la Ferrante non trascriva l’intera frase in dialetto, ma esibisca solo le singole parole insultanti. Ad esempio, quando Lila si rivolge a Enzo (che l’aveva aiutata a divincolarsi da un abbraccio insistente di Marcello Solara):

Andammo via mentre sentivo Lila che diceva indignata a Enzo, in dialetto strettissimo:

«M’ha toccata, hai visto? A me, chillu strunz. Meno male che non c’era Rino.

Se lo fa un’altra volta, è morto». (Ag, 148)

Come si vede, in questa frase, anche se viene indicato metalinguisticamente che Lila si sta esprimendo in dialetto (addirittura strettissimo) quando si passa al discorso diretto (inaspettatamente direi) solo l’insulto è trascritto in dialetto. Questo espediente è tipico dell’opera e lo si ritrova in vari punti, dal primo al quarto volume.

3. Il dialetto che include e l’italiano che esclude

L’alternanza degli usi linguistici tra italiano e dialetto non è caotica, ma è governata da regole sociolinguistiche ben precise. La Ferrante mostra di conoscere bene questi meccanismi e li usa per orchestrare il parlato dei suoi personaggi.

Una di queste regole è quella che potremmo definire dell’inclusione e dell’esclusione, ed è una tipica risorsa che noi parlanti utilizziamo per coinvolgere o escludere qualcuno da una conversazione. Naturalmente, per poterla applicare si deve essere in grado di alternare i due idiomi, cosa che solo i parlanti italianizzati riescono a fare.

Un passaggio significativo in questo senso è quello in cui Lila, Lena e Carmela si ritrovano sul sagrato della chiesa a parlare di fidanzati:

«Perché gli dici di no?» mi chiese Lila in dialetto.

Risposi all’improvviso in italiano, per farle impressione, per farle capire che, anche se passavo il tempo a ragionare di fidanzati, non ero da trattare come Carmela:

«Perché non ero sicura dei miei sentimenti».

[…]

Cominciammo, come se fosse una delle gare delle elementari, una conversazione che ridusse Carmela a pura e semplice ascoltatrice.

[…]

E quindi, tornando di colpo al dialetto, mi consigliò di fidanzarmi con Gino, ma a patto che per tutta l’estate lui accettasse di comprare il gelato a me, a lei e a Carmela. (Ag, 99)

In questo lungo passaggio Ferrante mostra di saper cogliere perfettamente le regole di ingaggio della lingua da usare nella conversazione.

Si inizia in dialetto. Tra ragazze della Napoli degli anni ’50 che si ritrovano a conversare tra di loro e in assenza di sconosciuti, fuori da un contesto istituzionale, di argomenti che riguardano la vita di tutti i giorni, la scelta del dialetto è obbligata. Lo sarebbe anche oggi, specie in alcune aree del paese, ma all’epoca molto di più. Elena e Lila, però, sono un’eccezione nel panorama sociale della Napoli dei Rioni e dell’Italia in genere. Sappiamo già che vanno a scuola con assiduità e con successo (cosa non scontata per l’Italia degli anni Cinquanta), che hanno entrambe un amore per le letture (qui siamo oltre l’eccezione, quasi nella unicità) e per la lingua italiana. Per questo possono permettersi di usare l’italiano, anzi vivono un momento che «acces[e] [loro] il cuore e la testa» per quanto era bello usare «quelle parole ben architettate» (ibidem). Con loro c’è, però, Carmela, che corrisponde al profilo tipico di adolescente italiana di quegli anni: basso livello di scolarizzazione, pochissima o nulla frequentazione con l’italiano, piena padronanza comunicativa solo in dialetto. Per questo con il passaggio alla conversazione in italiano il suo ruolo si riduce a «pura e semplice ascoltatrice». L’italiano viene qui usato, quindi, per escludere la terza amica e isolare le Lila ed Elena nel loro mondo di italofone amanti della scuola e delle letture.4Non solo, ma Elena dice che l’uso dell’italiano serve proprio per non essere considerata alla stregua di Carmen.

La conversazione, però, termina con un patto tra Lila ed Elena che deve necessariamente essere comunicato alla loro amica lì presente (il fatto che Elena si fidanzerà con Gino solo a patto che egli paghi ogni giorno un gelato a tutte e tre), per questo la conversazione torna improvvisamente al dialetto («tornando di colpo al dialetto» scrive la Ferrante), e che quindi sancisce di nuovo una conversazione non più a due ma a tre persone. Lo stesso gioco tra italiano e dialetto si ripropone più avanti. Qui siamo nel momento in cui Elena, ormai neolaureata alla Normale di Pisa, torna a Napoli ad abitare con la famiglia di origine e dice alla madre di essersi fidanzata:

Cercava di contenere il suo dissenso, forse non si sentiva nemmeno più in grado di comunicarmelo. La lingua stessa, infatti, era diventata un segno di estraneità. Mi esprimevo in modo troppo complesso per lei, anche se mi sforzavo di parlare in dialetto, e quando me ne accorgevo semplificavo le frasi, la semplificazione le rendeva innaturali e perciò confuse. Per di più lo sforzo che avevo fatto per cancellarmi dalla voce l’accento napoletano non aveva convinto i pisani ma stava convincendo lei, mio padre, i miei fratelli, tutto il rione. (Snc, 436)

Elena ormai è qui nel pieno di un processo di italianizzazione che ha coinvolto tantissimi italiani degli anni ’60, che, grazie al livello di studio innalzato (e lei è una laureata), alle migrazioni interne (e lei ha passato tempo a Pisa sforzandosi di comunicare con persone che non erano in grado di comprendere il dialetto natio), e all’incontro con la carta stampata (e lei ha cominciato a leggere giornali, oltre che i libri) sono riusciti a impossessarsi dell’idioma nazionale. Il possesso dell’italiano, però, non elide la competenza in dialetto, semmai vi si aggiunge creando la prima generazione di persone in grado di alternare le due lingue. Elena rappresenta un avamposto, ancora una eccezione, ma quello che le capita sarà ciò che capiterà a milioni di italiani dopo di lei.

Ella ha interiorizzato un sistema di regole che nulla hanno a che fare con quelle delle proprie origini e si ritrova, nel brano citato, a dover conversare con un genitore che invece non ha mai abbondonato la lingua delle origini. Il contatto linguistico tra le due è paradigmatico di ciò che molti italiani hanno provato personalmente. Quasi un affresco delle conseguenze causate dagli avamposti dell’italofonia su comunità dialettofone e di come questa presenza abbia accelerato il nostro processo di italianizzazione.

Da una parte c’è una madre che per la prima volta, a causa della frattura provocata dalla partenza della figlia per Pisa e dal relativo percorso di studi completato, sente di non riuscire nemmeno a comunicare il proprio dissenso («non si sentiva nemmeno più in grado di comunicarmelo» scrive la Ferrante). Per la prima volta, messa di fronte a una figlia che ce l’ha fatta (diciamo così), si rende conto che la lingua con la quale si è espressa da sempre non aiuta. È la scoperta di un’alterità linguistica che pone il dialetto in condizione succube. Troviamo qui una delle funzioni cardine che gli italofoni hanno compiuto tra le masse dialettofone. Far loro percepire che il dialetto, sino a quel momento lingua onnipotente, non è più buono per tutte le occasioni. Fino ad allora questa stessa funzione era stata svolta dalla burocrazia, la lingua dello Stato, laddove il cittadino si trovava nelle condizioni di non poter comprendere norme e leggi, ma qui siamo in presenza di un rapporto tra familiari e quindi di una spinta verso l’italiano che, essendo esercitata dal dover comunicare con un proprio caro, è molto più forte.

Dall’altra parte abbiamo una ragazza che sta cercando consapevolmente di abbandonare il dialetto in funzione dell’italiano, ma che nel salto non può lasciare indietro i propri genitori, fratelli, amici di una vita. Per questo torna a usare il dialetto, ma non è più una opzione automatica e naturale come lo è stata sino ad allora, è semmai una scelta conscia in contrapposizione all’italiano («mi sforzavo di parlare in dialetto» fa dire ad un certo punto la Ferrante) che ha un che di «innaturale».

Infine, il ruolo dell’ambiente circostante. Una persona si autodefinisce attraverso le proprie scelte linguistiche, le quali non sono mai prive di conseguenze nelle immagini che gli altri si fanno di noi. Elena cerca in tutti modi di integrarsi a Pisa5 abbandonando le stimmate linguistiche dialettali, ma l’ambiente in parte la respinge schernendola per la pronuncia napoletana (più indietro si legge «una volta una ragazza di Roma a una mia domanda non ricordo su cosa, rispose facendo la parodia della mia cadenza e tutti risero», Snc, 332), e una cosa identica e contraria avviene quando lei fa ritorno a Napoli, dove la lingua dello scherno non è il dialetto, ma l’italiano. Da qui il fatto che gli abitanti del rione cominciano a chiamarla «la pisana».

La scelta di passare all’italiano comporta, quindi, la perdita di una identità condivisa con i propri territori di origine; ma allo stesso tempo, prima che il processo di acquisizione della nuova lingua si compia definitivamente, si continua a venire percepiti come appartenenti a un’altra cultura dai parlanti colti. La lingua che usiamo (o che gli altri ci attribuiscono a causa della nostra pronuncia), in pratica, diventa «un segno di estraneità».

4. I luoghi dell’italiano

Come si è detto, nell’Italia raccontata da Ferrante, soprattutto dagli anni ’50 alla fine dei ’90, l’italiano è una lingua scritta, ma non parlata se non da pochissime persone e in pochissimi luoghi.

Il risultato era che lo stadio iniziale di italianizzazione passava necessariamente dal “luogo” della carta stampata, e quindi da un uso «libresco» (come lo definisce la Ferrante) dell’italiano che strideva con la scioltezza degli usi orali posseduti da chi era in una fase più avanzata della competenza. Tant’è che quando Elena e Lila si inoltrano in schermaglie linguistiche nel loro italiano degli esordi fanno «una conversazione nella lingua dei fumetti e dei libri». Quando, però, l’ormai adulta Elena si esercita, in contesti ancora più formali, nell’italiano orale il risultato è goffo:

Arrivai al collegio piena di timidezze e di goffaggini. Mi resi subito conto che parlavo un italiano libresco che a volte sfiorava il ridicolo, specialmente quando, nel bel mezzo di un periodo fin troppo curato, mi mancava una parola e riempivo il vuoto italianizzando un vocabolo dialettale (Snc: 331-332).

Il rapporto tra italiano scritto e parlato è, in questa fase, di prossimità ma non di uguaglianza. A prevalere sono le forme scritte, e quando una persona abituata a comunicare oralmente in dialetto e a leggere in italiano si trova a dover comunicare in italiano lo percepisce come finto, artificiale, libresco, come dice appunto la Ferrante. Ma questi effetti altro non sono che la normale percezione della distanza tra grammatica dello scritto e grammatica del parlato e, anzi, il percepirlo è segno di una competenza metalinguistica pronunciata, dal momento che solo in questo caso si può percepire il proprio italiano come libresco e non sciolto.

L’altro luogo dove si apprende l’italiano è la scuola, sia in quanto spazio dove si è obbligati a entrare in contatto con il libro di testo e quindi con l’italiano, e sia per l’opera di solitari maestri (come lo sono la maestra Oliviero, il maestro bibliotecario Ferraro e la professoressa di liceo Galiani) che si impegnano per instillare nei propri allievi l’amore per la lingua italiana e per creare le condizioni affinché essi possano arrivare a padroneggiarla.

Dice Elena:

Parlai molto emozionata in italiano, come se fossi a scuola. (Ag, 167)

Ma l’uso dell’italiano a scuola è per i ragazzi della generazione di Lila e Elena (e per le successive, esclusa quella che popola in questi anni i banchi) un uso limitato alle interrogazioni.

Scrive la Ferrante a proposito di Alfonso:

In più, mentre nelle interrogazioni usava un buon italiano, a tu per tu non usciva mai dal dialetto e in dialetto era difficile ragionare sulla corruzione della giustizia terrena… (Ag, 255)

Come si vede, in questa frase vengono rappresentati alla perfezione i campi d’azione delle lingue presenti a scuola (italiano e dialetto). L’italiano per relazionarsi con i professori, si badi bene, però, solo nei momenti formali dell’interrogazione, e il dialetto per comunicare con i compagni.

Nell’Italia degli anni Cinquanta poi la presenza del dialetto era così predominante che anche nelle interazioni con i docenti esso tendeva a prevalere, come succedeva con Enzo nelle gare di matematica organizzate a scuola:

Il bambino dava il risultato in dialetto, come se stesse per strada e non in aula, e il maestro gli correggeva la dizione, ma la cifra era sempre giusta. (Ag, 46)

Enzo, lo ricordiamo, è il figlio del fruttivendolo che, al contrario di Elena e Lila, era completamente estraneo a comportamenti orientati allo sviluppo della competenza in italiano fuori dell’aula, di conseguenza non può esprimersi in italiano neanche quando la situazione, come in questo caso, lo richiede. Il maestro, lì accanto, lo corregge rispettando quel ruolo richiamato in precedenza di sentinella dell’italiano. In una sola frase, un trattato molto preciso delle interazioni comunicative in aula nell’Italia degli anni ’50.

5. Le sorti del dialetto

Elena e Lila sono due persone che rappresentano una forte eccezione nel panorama sociolinguistico italiano dell’epoca. Loro non provengono dalla famiglia Airota, dove il padre docente di letteratura greca e la madre collaboratrice in una casa editrice garantiscono per i propri figli altissimi standard nella formazione linguistica («c’erano intere biblioteche tra lui e Antonio, ma si assomigliavano», commenta ad un certo punto Elena per spiegare la differenza tra il futuro marito Pietro e il vecchio fidanzato Antonio, Snc, 434), o dalla famiglia della professoressa Gentili con una casa che colpisce Elena per «i libri ovunque, c’erano più libri in quella casa che nella biblioteca del rione, intere pareti coperte da scaffali fino al soffitto» (Ivi, 154). E non sono nemmeno provenienti da quei nuclei familiari non paragonabili agli Airota o ai Gentili, ma comunque un buon gradino sopra i propri, tipo i Sarratore, che comunque, seppure in un contesto ancora di marginalità, erano famiglie dove il padre scriveva poesie e piccoli articoli per la stampa locale e «si esprimeva più in italiano che in dialetto».

Le due amiche no, provengono da famiglie dove libri, cultura, studio sono preclusi (Lila, come sappiamo, pur se promettentissima, interrompe gli studi al termine della quinta elementare, ed Elena prosegue solo tra grandi sacrifici e grazie alle spinte della maestra Oliviero) e dove l’unica lingua per comunicare è il dialetto.

Ciononostante, entrambe si avvicinano all’italiano (Elena addirittura si laurea), arrivano a padroneggiarlo (Lila pur interrompendo gli studi mantiene una grandissima familiarità con lo standard e dimestichezza con la lettura) e sanciscono per questo una vera mutazione genetica rispetto al proprio nucleo familiare di origine. E proprio come in tutte le mutazioni genetiche innervano di italianità anche i rapporti con i proprio figli.

Questo farebbe pensare che, almeno per questi personaggi, le sorti del dialetto siano segnate e che in qualche modo queste persone che, per tradizione familiare o per scelta pervicacemente sostenuta, hanno avuto modo di imparare l’italiano si ritroveranno ad abbandonare col tempo il dialetto nativo. Anche alcuni linguisti hanno teorizzato negli anni ’70 la fine del dialetto in favore di una italofonia diffusa, ma questa si è realizzata senza implicare la morte dei dialetti e l’opera della Ferrante lo descrive.

Il dialetto resta innanzitutto la lingua per comunicare con i familiari restati in regime di totale dialettofonia. Lo abbiamo visto prima quando abbiamo riportato la descrizione della scena del rientro di Elena dal soggiorno a Pisa.

Inoltre, il dialetto è la lingua degli sfoghi d’animo.6 Come se ad esso restasse il compito, anche per chi ha ormai acquisito le sufficienti competenze in italiano, di esprimere rabbia. Ad esempio, Nino, che pure è da considerare un intellettuale con molti studi e molti libri letti e scritti alle spalle, avviato peraltro a diventare parlamentare, a un certo punto preso dalla rabbia per aver litigato con un Sarratore:

Tornò a casa stravolto, parlava in dialetto, era nervosissimo, ripeteva: ora vediamo chi la spunta. (Sbp, 224)

Il dialetto si continua a usare anche per essere rispettati; come fa Elena, già laureata con 110 e lode a Pisa, quando si ritrova a Napoli in una giornata particolarmente complicata per lei:

Ricorsi al dialetto più violento del rione, insultai, fui insultata, minacciai, fui sfottuta, risposi a mia volta sfottendo, un’arte malvagia a cui ero addestrata. […] Le buone maniere, la voce e l’aspetto curati, la ressa nella testa e sulla lingua di ciò che avevo imparato sui libri, erano tutti segnali immediati di debolezza che mi rendevano una preda sicura, di quelle che non si divincolano. (Snc, 483)

Ma il dialetto serve anche per comunicare abitualmente «senza male parole» e il dialetto diventa «mite» come nel caso di Stefano in macchina con Elena:

Appena fuori dal rione attaccò a parlare e non la smise finché non arrivammo alla sartoria. Si espresse in un dialetto mite, senza male parole né sfottò. Cominciò dicendo che dovevo fargli un favore, ma non mi chiarì subito quale era il favore, disse solo, ingarbugliandosi, che se lo facevo a lui, era come se lo facessi alla mia amica. (Snc, 84)

Oppure può servire anche per esprimere sentimenti positivi, piacevoli come quelli tramandati in certe canzoni dialettali, dove ad essere veicolata è la dimensione affettiva:

Utilizzò per tutto il tempo, anche quando parlò della propria violenza, un dialetto pieno di sentimento, senza difese, come quello di certe canzoni. (Snc, 87)

Insomma, una lingua che copre tutte le gamme del sentimento, rabbia– mitezza – bontà.

Ma la funzione principale, per chi è in grado di esprimersi anche in italiano, è quella dell’autenticità. È la lingua di chi non vuole mettere filtri tra se e gli altri. E lo si comprende conoscendo la storia linguistica del nostro paese, che tende ad assegnare al dialetto il ruolo di lingua dell’immediatezza e della spontaneità e all’italiano il ruolo di lingua dell’autocontrollo perché si tratta di una sintassi costruita successivamente. Così, ad esempio, quando Elena e Lila hanno una delle ultime discussioni, ormai più che adulte e con una solida competenza in entrambe le lingue – seppur più consolidata in Elena, che oltre ad essersi laureata ha mantenuto un costante rapporto con la scrittura e fa una vita più orientata ai consumi culturali – emerge con forza la funzione che noi italiani usiamo dare al dialetto nativo:

Mi venne in mente che fosse ormai una questione linguistica. Lei ricorreva all’italiano come a una barriera, io cercavo di spingerla verso il dialetto, la nostra lingua della franchezza. Ma mentre il suo italiano era tradotto dal dialetto, il mio dialetto era sempre più tradotto dall’italiano, e parlavamo entrambe una lingua finta. Bisognava invece che sbottasse, che le parole diventassero incontrollate. Volevo che dicesse nel napoletano sincero della nostra infanzia: che cazzo vuoi, Lenù, sto così perché ho perso mia figlia, e forse è viva, forse è morta, ma non riesco a sopportare nessuna di queste due possibilità… (Sbp, 344)

Siamo qui ormai in anni molto vicini a noi (certamente dopo il 2007), l’italiano è diventato una lingua di uso comune anche in contesti colloquiali non formali. Di fronte ci sono due donne che hanno attraversato tutto il processo di italianizzazione del dopoguerra. Il dialetto resta però per loro una risorsa espressiva (seppur più naturale in Lila che in Elena), anzi rappresenta la via per esprimere i sentimenti più sinceri.

6. Quale futuro linguistico?

Abbiamo compiuto insieme a L’Amica geniale un cammino sulle vie dell’italianizzazione, ne abbiamo colto i diversi risvolti, non resta che vedere se l’opera della Ferrante dia indicazioni sullo stato attuale degli usi linguistici nel nostro paese e sulle prospettive per il futuro immediato. Anche su questo, a ben cercare, si ritrovano tracce significative e illuminanti.

Il primo aspetto innovativo è quello delle lingue straniere a scuola.

Gli chiesi se aveva sentito parlare di azioni legali contro di me e lui invece di rispondermi attaccò a parlare male della scuola, disse che i professori ce l’avevano con i suoi figli, si lamentavano che parlavano o in tedesco o in dialetto, ma intanto l’italiano non glielo insegnavano. (Sbp, 277)

Qui vediamo, rappresentata da Antonio, emigrato di ritorno con moglie e figli non italiani, alle prese – come molti genitori di bambini nati all’estero – con le difficoltà scaturite dal contatto tra la lingua del paese di provenienza e l’italiano, la nuova questione della scuola italiana degli anni duemila. Una scuola che dopo avere visto ragazzi dialettofoni alle prese con la lingua italiana, ora si trova a dover gestire la presenza di ragazzi non italiani. Sia perché figli di entrambi i genitori migranti, e sia (come in questo caso) perché figli di coppie miste.

La presenza straniera non si vede solo a scuola, ma ormai è un tratto saliente del panorama italiano. E così può capitare ad Elena:

Nel 2005 andai a Napoli, incontrai Lila. […] Nel vedere africani, asiatici a ogni angolo del rione, nel sentire odori di cucine sconosciute, si entusiasmava, diceva: io non sono andata in giro per il mondo come hai fatto tu, però, vedi, il mondo è venuto lui da me. A Torino ormai era lo stesso e l’irruzione dell’esotico, la sua riduzione alla quotidianità, mi era piaciuta. Ma solo al rione mi resi conto di come il paesaggio antropico si era modificato. Il vecchio dialetto aveva subito accolto, secondo una consolidata tradizione, lingue misteriose, e intanto stava facendo i conti con abilità fonatorie diverse, con sintassi e sentimenti una volta molto distanti. La pietra grigia delle palazzine aveva insegne impreviste, vecchi traffici leciti e illeciti si mescolavano ai nuovi, l’esercizio della violenza si apriva a nuove culture. (Sbp, 438)

Una presenza che modifica gli spazi urbani con nuove insegne, nuovi suoni, nuovi «odori di cucine sconosciute» in un dialogo tra cultura italiana di origine e nuove culture di arrivo che apre a nuove sintassi, quindi a nuove forme espressive in grado di rappresentare nuovi «sentimenti una volta molto distanti».

Concludo con un’ultima considerazione.

Molti si stanno cimentando nell’esercizio di tentare di scoprire la vera identità di Elena Ferrante. Io non oso avventurarmi in ipotesi così complicate da formulare; mi permetto, però, con una certa serietà, di aggiungere un possibile piccolo indizio: chi ha scritto L’Amica geniale conosce a fondo i meccanismi sociolinguistici che hanno regolato la storia del nostro paese dal dopoguerra a oggi.

1. A tal riguardo, rimando naturalmente a T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari 1963.

2. Anche se di recente il sito «Fanpage» ha affermato che il rione de L’Amica geniale è il “rione Luzzatti” di Gianturco, resta il fatto che mai nel libro viene fatto questo nome, ma si parla semplicemente di “rione”. A. Esposito, «L’amica geniale» di Elena Ferrante, viaggio nei luoghi del romanzo, 8 marzo 2016, in «Fanpage», http://www.fanpage.it/l-amica-geniale-di-elena-ferrante-viaggio-neiluoghi- del-romanzo-video/ (ultimo accesso 2 aprile 2016).

3. I corsivi utilizzati nelle citazioni sono tutti di chi scrive e usati allo scopo di sottolineare i passaggi ripresi nella trattazione.

4. Addirittura due ragazze che sognano di scrivere un libro (anzi, Lila ne scrive uno già mentre è alle elementari) e che frequentano assiduamente la piccola biblioteca di quartiere.

5. Pisa è una città toscana dove la parlata locale coincide in massima parte con l’italiano toscofiorentino dal quale deriva l’italiano standard. In più, Elena frequenta la prestigiosissima Scuola Normale Superiore, ovvero, un ambiente multiregionale ad alto tasso intellettuale e dove, quindi, già all’epoca circolava fortemente l’italiano standard.

6. Per certe funzioni del linguaggio, traggo spunto da R.O. Jakobson, Saggi di linguistica generale, trad. it. di L. Grassi, Feltrinelli, Milano 1966.