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Al discount dell'umanità perduta

Autore: Benedetto Vecchi
Testata: Il Manifesto
Data: 16 novembre 2004

Un piccolo appartamento nella degradata periferia torinese abitato da una donna che fa il bilancio della sua vita. E' l'inizio di un lungo racconto in forma di monologo di Massimo Carlotto da poco pubblicato da e/o con il titolo programmatico Niente, più niente al mondo (pp. 69, € 7). La donna che si racconta non ha niente di buono da offrire al mondo. Si è sposata giovane con un operaio della Fiat piena di speranze per il futuro. Erano gli anni in cui il matrimonio con un metalmeccanico coincideva con l'uscita dalla realtà immobile e asfittica del piccolo paese contadino per essere proiettati al centro di quel che davvero sembrava contare: la stabilità economica, il riconoscimento pubblico di un status raggiunto, la possibilità di fare progetti per il futuro. La vita, però, riserva delle brutte sorprese. Il marito, sindacalista e militante del Pci, viene cacciato dalla Fiat assieme a decine di migliaia di suoi compagni, durante quella campagna di annientamento del sindacato e delle avanguardie operaie decisa dal management di Corso Marconi alla fine degli anni Settanta. E la donna si ritrova proiettata nell'assoluta precarietà. Assieme al marito hanno acquistato una casa e hanno il mutuo da pagare. L'uomo di famiglia è oramai un disoccupato che trova tutte le porte chiuse fino a quando non gli viene chiesto di stracciare la tessera del sindacato in cambio di un posto di magazziniere e di un salario che non consente neanche di mettere insieme il pranzo con la cena. La donna, allora, diventa una «donna di servizio», anche se con ipocrita eleganza viene chissà perché chiamata colf. La sua giornata è oramai scandita dalle pulizie nelle case della ricca borghesia torinese e da estenuanti viaggi alla ricerca di un discount conveniente. E con l'arrivo dell'euro, la già precaria esistenza diventa un inferno. Ma la protagonista non si scoraggia e scorre le locandine pubblicitarie dei supermercati alla ricerca delle offerte speciali. E' una buona massaia, di quelle che piacciono tanto al Cavaliere Silvio Berlusconi. Ma cova rancore e rabbia.

Rabbia che trova alimento nelle passeggiate del sabato pomeriggio, quando costringe il marito e la figlia a rifarsi gli occhi di fronte le vetrine luccicanti del centro. Il rancore, invece, si scaglia contro i vecchi e i nuovi abitanti del quartiere. I primi sono colpevoli per aver inseguito sogni di eguaglianza e libertà; i secondi, beh, che dire di uomini e donne che hanno un colore della pelle diversa e che adorano un altro dio, mentre spacciano, rubano e attentano alla virtù delle ragazze italiane? Tutto il male possibile, ovviamente.

Il razzismo e l'ostilità verso il mondo intero la portano anche a denunciare alla polizia un giovane maghrebino senza permesso di soggiorno, colpevole di amare, ricambiato, la sua «piccola bambina». Verso la quale nutre sogni di rivincita sociale. E' una bella «figliola» e può puntare a diventare una velina o un'attrice usando a dovere il suo corpo; oppure può riuscire a sposare un uomo «con la grana», magari incastrandolo con un matrimonio riparatore.

Questo racconto di Massimo Carlotto è scritto con un linguaggio asciutto, quasi algido, ma che lascia lucidi gli occhi, perché lo scrittore della saga dell'Alligatore mette semplicemente nero su bianco lo spaccato di una umanità ferita. La xenofobia della protagonista è certo reattiva, segno di una disperazione senza fine, ma che è diventata l'unico riparo dove rifugiarsi per trovare la forza per alzarsi dal letto la mattina. Visto da questa prospettiva il razzismo è l'elemento costitutivo di un legame sociale che cancella qualsiasi spinta alla trasformazione per elevare a «ordine naturale» le gerarchie sociali ed etniche dominanti. E quindi diventa «naturale» che l'odio per gli altri assuma nella protagonista la tonalità emotiva dell'invidia e dell'esaltazione dei ricchi, perché i ricchi sono furbi, perché loro sì sanno come va davvero il mondo. Che il marito e la figlia non la seguano nei suoi deliri è la riprova della loro inettitudine. Ma, per fortuna che c'è sempre lei che mette «una toppa» alla loro insipienza.

La Torino di Carlotto è lo specchio dell'Italia contemporanea. E questo racconto si spinge molto più in là di quanto narrano i media nostrani. E se nelle rappresentazioni dominanti l'Italia viene descritta come un paese sano con qualche problema, in Niente, più niente al mondo l'immagine è marchiata da contrasti forti, difficilmente ricomponibili. Nella protagonista c'è l'orgoglio di lavorare duramente e la sofferta percezione che i piedi gonfi, le umiliazioni, il disfacimento del corpo per la fatica non valgono poi tanto rispetto al fascino patinato dei ricchi e famosi che appaiono in televisione o nei rotocalchi che legge nelle case delle sue «signore». Le umiliazioni, la pena del vivere sono però diventate una psicopatologia della vita quotidiana da cui non c'è scampo. E' meglio, dunque, vestire i panni di una tragedia posticcia, perché almeno riesci ad andare in tv e hai i tuoi cinque minuti di visibilità. Cosa che regolarmente accade, dopo che la protagonista si è trasformata in una macchina di morte. Varrebbe la pena, semmai, di spaccare tutto. Ma questa è un'altra storia, che ha bisogno di altre parole per essere raccontata e che sicuramente non dispiacerebbe a Carlotto. Le parole della politica e del conflitto, di un «fare società» dove non ci sono buoni e cattivi, ma desideri e bisogni che diventano la materia prima per affermare una vita che valga la pena di essere vissuta.