Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Il senso nascosto della storia

Autore: Massimiliano Governi
Testata: Futura - Corriere della Sera
Data: 10 novembre 2017

Poco fa è salito qui in soffitta mio figlio: voleva che lo aiutassi a fare grammatica, che trova un po' indigesta. Alla fine, dopo aver terminato gli esercizi, ho cercato di motivarlo, spiegandogli che la grammatica non è solo un insieme di regole e obblighi. «Se ti appassioni, ti rivela il senso nascosto della storia, collega gli elementi, accosta i contrari», ho concluso senza capire bene io stesso cosa intendessi dire. Lui ha annuito vigorosamente (come fa sempre quando vuole sganciarsi da una conversazione) ed è sceso in fretta giù in salone e io ho ricominciato a guardare fuori della finestra il cielo, le nuvole, che sembravano un cumulo di piatti sporchi, cercando di farmi venire un'idea per un racconto sullo sport.

Mentre ripensavo al discorso oscuro fatto a mio figlio, mi è tornato di colpo in mente un mio vecchio amico del mare, Luca. Era un portento in grammatica e nel nuoto, un campione delle gare di fondo. Ricordo che il padre lo allenava e lo faceva nuotare dal nostro stabilimento Il Carrubo fino a Torre Olevola, avanti e indietro per quattro volte: dieci chilometri al giorno. Anch'io in quegli anni ero costretto da mio padre a fare uno sport agonistico: giocavo infatti nei Giovanissimi della Lazio, ma odiavo il calcio, i miei compagni, e soprattutto l'allenatore, con quella sua tuta scolorita e l'aria dura e spiegazzata di chi è abituato a darci dentro e solo lui sa perché. Certi pomeriggi di fine luglio andavo a casa di Luca a fare i compiti per le vacanze.

Osservavo i suoi capelli così biondi da sembrare bianchi, le sue spalle squadrate e le lentiggini sul viso come macchioline di banana matura, lo ascoltavo mentre mi raccontava delle sue sfiancanti gare di nuoto e mi parlava degli avverbi e delle congiunzioni coordinative che indicano una frattura temporale («improvvisamente», «d'un tratto»). Non ricordo altro. Per anni non l'ho più visto perché i miei genitori «improvvisamente» hanno venduto la casa al mare e io ho smesso di andare al Circeo. Seppi da qualcuno che aveva quasi vinto il titolo italiano nel gran fondo, ed era stato convocato per i mondiali. Poi più niente.

Fino a quando, l'estate del 1980 (me lo ricordo perché avevo appena compiuto 18 anni) l'ho incontrato.

Ero andato a mangiare con i miei genitori in una trattoria di fronte alla stazione (dopo aver visto un film al cinema). Io e mio padre avevamo litigato al solito come dei mimi, senza parlare, solo sbattendo i pugni e i piatti sul tavolo (in quel periodo prendevo pasticche come noccioline e avevo sempre la testa sbalestrata e i nervi a pezzi) ed ero uscito dal locale. Credo di aver fatto un paio di volte il giro del palazzo e poi di essere passato sotto il tunnel che collega via Giolitti a via Marsala, e nello spazio tra due colonne mi ricordo di essermi imbattuto in un materasso con due barboni che dormivano schiena contro schiena. Mi sono soffermato a guardarli. Dopo poco ho sentito qualcuno che mi picchiettava sulla spalla.

Mi sono voltato. «Hai cento lire?» Indossava un paio di short jeans tutti tagliati e un bomber rosso con i fiori bianchi stampati sopra, la zip aperta fino allo sterno. Aveva un viso scompigliato più dei capelli, però sereno, dopo una tempesta che è passata. Un occhio semichiuso, offeso fisicamente e moralmente, l'altro semiaperto. Il labbro superiore gonfio, che sembrava sul punto di scoppiare. Penso di avergli dato qualche spicciolo e, mentre lo guardavo meglio, l'ho riconosciuto.

Era lui anche se mi sembrava un altro, anzi un'altra. Non ce l'ho fatta a dirgli nulla (avevo il cervello spento, probabilmente) e sono andato via. Qualche giorno dopo però sono tornato con il mio motorino Bravo e l'ho trovato di nuovo lì, mi sono fermato, gli ho detto chi ero e abbiamo cominciato a parlare come se niente fosse. Lui mi ha raccontato che suo padre qualche anno prima era scappato di casa e sua madre era morta di aneurisma, l'aveva trovata sul pavimento del bagno.

Aveva smesso col nuoto: da un giorno all’altro non si era più presentato in quel palazzo di vetro con le quattro piscine olimpiche, la sua ex casa dei sogni, e ora viveva per strada.

(Ricordo che ogni tanto mi venivano in mente immagini di Luca ragazzino: lui che si infila una ciocca di capelli nella cuffia; le sue dita che tagliano l'acqua del mare davanti al suo viso; lui che si fa la doccia nel suo giardino e usa lo shampoo aggressivo per nuotatori, quello che rimuove il cloro e il salmastro, all'aroma di limone). I miei genitori erano partiti per le vacanze insieme a mio fratello, e io gli ho proposto di venire a stare un po' da me. Lui è andato da un paio di barboni dietro la colonna a dirgli qualcosa e poi è tornato con una busta di plastica, gli ho fatto posto sul sellino del Bravo e sono partito. Appena arrivati a casa, gli ho mostrato dove poteva dormire: sul divano letto dello studio di mio padre. Poi gli ho portato le lenzuola pulite e un cuscino, il più soffice che ho trovato. Lui ha ringraziato e poi si è chiuso dentro. Ho preparato la cena ma lui non è uscito dalla stanza fino alla sera dopo. Si è alzato, con i capelli davanti agli occhi, ha mangiato veloce quello che c'era, ha aiutato a sparecchiare, ha fatto un giro a passi felpati rasentando i muri dell'appartamento e poi è tornato a letto.

In quei giorni non abbiamo quasi parlato di niente. (Ricordo solo che una volta mentre sorseggiava il caffè ormai tiepido, mi ha chiesto perché prendevo quelle pasticche - aveva visto il flacone sul tavolo. Io gli ho risposto che non lo sapevo, ma che non riuscivo a smettere. Lui allora mi disse una cosa strana: «Mettile in bocca, ma poi cerca di sputarle. Potrebbe funzionare»). Anch'io dormivo molto in quel periodo, proprio per via delle pasticche che prendevo. Non uscivo quasi mai. Mia madre aveva lasciato il frigorifero pieno: polpettoni, insalata di riso, torte salate. Una volta sono entrato in camera per guardarlo. Nonostante gli avessi dato felpe e tute e magliette pulite, portava sempre gli short e il bomber rosso. Era sdraiato sopra le lenzuola, le braccia lungo il corpo, i palmi aperti. Dicono che chi vive sulla strada è distrutto e ci mette tanto tempo a recuperare le forze.

Ricordo di aver pensato per un attimo che avrebbe potuto vivere lì con noi, che avrebbe fatto parte della nostra famiglia, che sarebbe stato bene.

Invece dopo una settimana circa se n'è andato. Ho sentito il rumore della porta che si apriva. Sonnecchiavo sul divano del salone, sarà stato mezzogiorno. Lui era già sulla soglia di casa, la busta di plastica in mano. Mi sono alzato e avvicinato piano. Volevo dirgli qualcosa, ma non sapevo cosa. Lui mi ha sorriso, una specie di sorriso che gli ha sfiorato gli angoli della bocca, mi ha messo una mano dietro la nuca e mi ha baciato. Le nostre lingue si sono toccate e poi arrotolate. Gli ho sfiorato il seno puntuto sotto il bomber chiuso fino allo sterno, ma lui si è staccato. Ha aperto la porta e ha imboccato le scale, finché non è sparito per sempre dalla mia vita. Prima di tornare a pensare al racconto sullo sport, ho messo il suo nome su Google. C'era una voce su Wikipedia.

È stato un nuotatore italiano, specializzato nelle lunghe distanze. (Roma, 8 marzo 1962 - Roma, 26 settembre 1989).