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L'Alligatore salvato da una donna

Autore: Roberto Iasoni
Testata: Corriere della Sera
Data: 2 gennaio 2018

Marco Buratti, detto l’Alligatore. Studente fallito, musicista fallito, investigatore fallito. L’aria di lutto dei cuori spezzati. Bevitore di calvados. Si rattrista facilmente e gli unici rimedi che conosca sono, nell’ordine: l’alcol, il fumo, il blues e fare all’amore. Odia il caldo e le pistole. Teme la solitudine più della morte. Al mondo ha solo due amici: Beniamino Rossini, gangster milanese vecchio stampo, e Max La Memoria, reduce della controinformazione anni Settanta. Ama il cinema d’autore e si rilassa guardando le televendite. Detesta le auto, ma guida con affezione una Skoda Felicia. Con il romanzo La verità dell’Alligatore, Massimo Carlotto lancia nel 1995 il protagonista della serie più abrasiva del noir italiano. In genere, il punto di vista del poliziesco è quello della legge, la malavita sta dall’altra parte. L’Alligatore, invece, sta nel mezzo: tra i «regolari» e la mala, ma con un piede nell’illegalità, visto che lavora senza licenza. Il suo tirocinio si è compiuto in carcere, dove ha scontato sette anni di ingiusta condanna. Ed è innanzitutto la criminalità ad affidargli un mandato (come mediatore), mentre i penalisti se ne servono per spingersi laddove i canali puliti non arrivano. La giustizia è tenuta a distanza con lancinante rancore.

Ma così era in principio. Nei successi capitoli — il recente Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttane (Edizioni e/o, pagine 214, 16) è il decimo romanzo — svanisce l’illusione di poter vivere in una nicchia di equidistanza. Tra l’orrenda malavita della modernizzazione neoborghese e gli spasmi di un Paese decadente non c’è più soluzione di continuità. Il «lato buio della vita», come dice un vecchio blues di James Carr, ha preso il sopravvento: anche il Bene ha i suoi torti da nascondere. Cambia, di conseguenza, la struttura del racconto, che da monocratico diventa collegiale: se nei primi libri l’io narrante è l’Alligatore, in La banda degli amanti (2015) entra in campo, proveniente da un’altra serie, il feroce italiano-medio Giorgio Pellegrini, che conquista lo spazio del deuteragonista scrivendo in prima persona interi capitoli del romanzo. Schema riprodotto nell’ultimo libro: l’Alligatore e il suo nemico si alternano nel ruolo di narratore.

Mai come questa volta Carlotto ha spinto oltre il limite il suo eroe. In una storia in cui «non c’è una sola cosa giusta», un groviglio di interessi criminali e trame criminogene della ragion di Stato cattura l’Alligatore e lo trascina su una pista irta di trappole. Troppe morti, troppe giustificazioni. Il veleno del cinismo morde anche il suo «cuore fuorilegge». E se non arrivasse Edith, anche lui si trasformerebbe in un uomo peggiore. Edith è l’amore, la passione. È la «vecchia puttana» (ha 42 anni) del titolo. Non scende dal cielo: sale dall’inferno. Terrorizzata e ferita, ma bellissima.

Questa è soprattutto una storia di donne: Edith e la sua padrona Frau Vieira, la poliziotta deviata Angela Marino e la narcotrafficante Paz Anaya Vega, le cantanti blues amate dall’Alligatore (la playlist è riportata nell’ultima pagina)... Donne violate e perdenti sempre, anche quando s’illudono di controllare la partita.

Carlotto ha scritto il più duro dei suoi romanzi, il più simenoniano nel sondare i sentimenti e il dolore femminile. La conclusione non può essere rivelata: basti sapere che il colpo di scena, a sipario calato, è un pugno nello stomaco. L’ultima inquadratura dell’Alligatore è indimenticabile. Lui e Edith sono seduti a un tavolino del Libarium di Cagliari. Lei gli prende la mano, la stringe. Lui capisce, non si fa più illusioni: vuole solo ascoltare, finché può, il cuore «che marcia al ritmo di 12 battute, come il blues».