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“Solo la letteratura tiene viva la memoria della Shoah”

Autore: Silvia D'Onghia
Testata: Il Fatto Quotidiano
Data: 11 gennaio 2018

"La politica fatta di slogan, di frasi fatte, non porta da nessuna parte. Per coltivare la memoria, ci rimane soltanto la letteratura”. Lia Levi sa bene che i pericoli delle nuove destre sono in agguato e conosce altrettanto bene l’importanza di continuare a raccontare l’orrore che le leggi razziali e la Shoah hanno rappresentato. Esce oggi per e/o il suo nuovo romanzo, Questa sera è già domani, la storia di un ragazzo (genietto a scuola) e dell’eterno dilemma tra restare e nascondersi o scappare per mettersi al sicuro.

Signora Levi, è un romanzo ispirato alla storia di suo marito, Luciano Tas. Un omaggio o un racconto che serve da esempio?

Nessuno dei due: i libri nascono dentro, senza un intento preciso. Il fattore ponte viene dopo, a volte l’autore non lo sa neanche. Mio marito raccontava la sua storia in casa, a episodi, oppure la scriveva su un libretto di appunti, ma dal punto di vista di un saggista, con piglio ironico e divulgativo. Gli episodi che narrava mi hanno sempre stimolato. Una volta gli ho chiesto: ‘Perché non la scrivi?’. Lui non era un romanziere, così quando gli ho proposto di farlo io, lui ha risposto: ‘Magari!’. Ho la coscienza di non aver rubato nulla.

Esiste invece una risposta al dilemma che, ancora una volta, trapela dai suoi libri?

Le cito Shakespeare: ‘La paura cieca guidata dalla ragione chiaroveggente muove passi più sicuri della ragione cieca che inciampa senza la paura’. Non esiste né politica né etica, esiste il sentire i tempi, senza cullarsi nell’ottimismo.

I fascisti stanno tornando?

Bisogna distinguere. I gruppi violenti e malavitosi, quelli che aggrediscono gli stranieri o i barboni, sono la rappresentazione di strati sociali fuori da qualsiasi tipo di cultura e di civiltà. Recentemente ho riletto il Manifesto degli scienziati razzisti, che elogiavano la parola ‘razza’. Oggi invece, anche tra questi nuovi governi di destra, nessuno dice di essere razzista.

Forse perché sarebbe politicamente scorretto?

Quando sei uno Stato in cui ha vinto la destra estrema non te ne importa nulla, anzi.

Lei va spesso nelle scuole a parlare con i ragazzi. Come reagiscono di fronte al racconto del nazifascismo?

Vengo chiamata da professori che sono sensibili al problema. I miei incontri sono positivi, perché c’è stata una preparazione. Alle superiori spesso usano la tecnologia per realizzare nuovi materiali su quel periodo.

A proposito di nuove tecnologie, lei è sui social?

Facebook mi fa orrore, è tutto finto: ti chiedo l’amicizia, ma quella non è amicizia. C’è una dilatazione dell’ego che si estende in larghezza e non in profondità.

Qual è – se c’è ancora – il ruolo della cultura nel raccontare la Shoah?

C’è rimasta solo la cultura. Con la scomparsa degli ultimi testimoni, è l’elaborazione creativa a restare viva. Una cosa è il ricordo, un’altra è la memoria, che è elaborazione del ricordo. I fatti hanno bisogno di essere metabolizzati ed è lunga, ci si perde in vari strati. La coscienza è stratificazione. In più la realtà per manifestarsi ha bisogno dell’immaginazione, altrimenti rimane un fatto raccontato. La letteratura universalizza questi fatti.

E la politica?

L’Italia non ha mai preso davvero coscienza delle leggi razziali. Alcuni articoli erano più duri di quelli del nazismo, per esempio quelli sulla scuola. Nelle città piccole, dove non c’erano le scuole ebraiche, è stato perso il diritto allo studio. La proibizione del lavoro ha contribuito allo sterminio, perché si moriva di fame. Le leggi razziali hanno contribuito allo sterminio. Ma tutto questo è stato annullato dalla nostra memoria. Forse oggi, a 80 anni dalla loro promulgazione, è giunto il tempo per una riflessione più ampia.

Quali sono, nel 2018, i nuovi scampati?

Le popolazioni in fuga da cose terribili, con destini di accoglienza diversi. L’Italia sul piano del salvataggio è unica. E anche su quello dell’accoglienza, le nostre condizioni saranno sempre meno terribili della Libia. Però dico una cosa: Roma antica prendeva tutti, ma tutti si dovevano identificare con i valori romani. Se noi pensiamo che per accogliere qualcuno dobbiamo fare tappetino dei nostri valori, allora no.