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Narrate donne la vostra storia

Autore: Alice Sebold
Testata: Robinson - La Repubblica
Data: 14 gennaio 2018

“Promisi a me stessa che se fossi sopravvissuta allo stupro ne avrei scritto”: Alice Sebold, l’autrice di “Amabili resti”, ha mantenuto la parola. E dopo l’elezione di Trump ha scritto la nuova introduzione al libro in uscita ora in Italia. Un inno alla necessità di parlare della violenza. Che così ha anticipato i temi della campagna #MeToo

Sono passati trentasei anni da quando sono stata violentata, diciotto dalla prima edizione di Lucky, e solo due mesi da quando un molestatore seriale nonché orgoglioso palpeggiatore di figa è stato eletto quarantacinquesimo presidente di questi Stati Uniti. Come molte altre donne sopravvissute a un’aggressione sessuale, sono rimasta atterrita, anche se forse non esterrefatta, dall’esito delle elezioni. Nella vita della maggior parte delle vittime di stupro un’indescrivibile ingiustizia è la norma. L’esito della mia storia personale resta, a trentasei anni di distanza, più equo di quanto non avvenga nella maggior parte dei casi. La mia vicenda ha avuto l’inizio, lo svolgimento e la fine che la maggior parte dei processi per stupro non ha. Lo stupratore è stato arrestato, processato, condannato e ha scontato quasi vent’anni di galera. Paragonate tutto questo a certe sentenze da due o tre mesi a cui abbiamo assistito di recente e comincerete a capire che ho scelto il titolo Lucky sia perché in effetti sono stata molto fortunata, sia perché l’ironia contenuta nel nostro modo di definire la “fortuna” sembra non finire mai.

Nel 1981, subito dopo il mio stupro, promisi a me stessa che se fossi sopravvissuta ne avrei scritto. Ero una matricola diciottenne e scrivevo e leggevo ossessivamente poesia. La poesia per me era ossigeno. Perfino ai miei occhi questa frase appare oggi un po’ sgradevole, ma a diciott’anni nutrivo una fede assoluta in quello che, detto in termini generali e in base alla mia concezione dell’epoca, è “il potere dell’arte”. Anche se la mia fede appassionata nella poesia poteva sembrare ingenua, forse la dimostrazione più impressionante di quanto fossi innocente era che a diciott’anni credevo ancora in un mondo giusto. Inoltre, a differenza della maggior parte delle donne e degli uomini con cui sono entrata in contatto dopo la pubblicazione di Lucky, sapevo in modo istintivo che ciò che mi avevano fatto dentro quella galleria era sbagliato. Infine, ecco un altro colpo di fortuna: mi avevano picchiata talmente tanto che non c’era modo di nasconderne i segni.

Alla fine mi ci sono voluti altri diciott’anni per scrivere un libro sul mio stupro, nonché, lungo il percorso, un passaggio dalla poesia alla prosa. E anche se nessuna bambina sognerà mai di crescere, essere violentata e poi scrivere un libro sulla sua esperienza, non mi dispiacque quando il mio fu pubblicato. Ho usato l’espressione “non mi dispiacque” perché ciò che volevo scrivere era un romanzo, non un memoir, e anche se quel romanzo avrebbe visto la luce due anni più tardi e avrebbe venduto abbastanza da permettere a Lucky di raggiungere un numero più ampio di lettori, ora sono convinta che il mio destino fosse scrivere Lucky. Molti di noi hanno uno scopo che non scelgono, ma che al contrario va a stanarli con l’ostinazione tipica di questo genere di fenomeni. Mi sono servita della cosa che amavo di più, ovvero la lingua, per tradurre in prosa la peggiore violenza che avessi mai conosciuto. Sottrarsi a questo, alla fine me ne sono resa conto, non era possibile, per il mio bene e per quello di tutte le vittime ridotte al silenzio dalla vergogna o da imperativi familiari o culturali.

Dopo la pubblicazione di Lucky, quando la mia storia divenne di pubblico dominio, e soprattutto dopo l’uscita di Amabili resti, cominciai a entrare in contatto con uomini e donne, ragazze e ragazzi, che erano stati violentati o molestati, e rimasi travolta dai loro racconti e dall’enorme quantità di lettere che ricevevo, contenenti resoconti dettagliati di stupri e incesti. Senza volerlo, avevo creato uno spazio in cui chi aveva subìto una violenza sessuale poteva raccontare la propria storia. E per molti io ero la prima persona a cui l’avessero mai raccontato. Le rivelazioni affrettate durante le code per gli autografi, le lunghe, fittissime lettere battute a macchina e, forse perfino più toccanti, le calligrafie ancora infantili sui fogli a righe contenevano spesso la frase: “Quello che è successo a me non è nulla in confronto a ciò che è capitato a te”. Eppure i racconti di abusi sessuali che seguivano mi parevano spesso molto più tremendi della mia vicenda.

Ricevetti un numero scioccante di lettere da parte di ragazze e ragazzi abusati da familiari, convinti che a me fosse accaduto di peggio perché ero stata violentata da uno sconosciuto. Un’ulteriore prova, nel caso ce ne fosse bisogno, di come uno stupratore può violentare non solo il corpo ma anche la mente. Ora capisco che “quello che è successo a me non è nulla in confronto a ciò che è capitato a te” fa parte di un modello di pensiero che entra in azione negli istanti immediatamente successivi all’aggressione. Se ti spingono a fondo sott’acqua fai qualunque cosa pur di tornare in superficie e inspirare più aria che puoi per sopravvivere. Compreso sminuire o attenuare la gravità dell’esperienza subìta per prendere le distanze dall’orrore e, in alcuni casi, dall’aver rischiato la morte. La polizia disse che ero stata fortunata perché non mi avevano uccisa; mio padre disse che era contento fosse successo a me e non a mia sorella perché io ero più forte. Ed ecco un’altra frase ricorrente: “Sono contento che mi sia capitato perché altrimenti non sarei la persona che sono oggi”. È un’affermazione comune tra i sopravvissuti a una guerra, al cancro, tra coloro che sono rimasti orfani dopo una calamità naturale o paralizzati a causa di un incidente d’auto. E, per molto tempo, l’ho ripetuta anch’io.

L’amara verità è questa: se potessi avere una gomma magica e cancellare quella notte del 1981, lo farei in un batter d’occhio, e se potessi dire a qualunque ragazza o ragazzo violentato da un parente che rispetto a lui o a lei sono stata davvero fortunata, lo avrei già fatto. Ma tutto ciò che potevo fare era scrivere un libro e raccontare una singola storia. Sfortunatamente non c’è modo di ricominciare daccapo, e dopo essersi salvati la sfida più grande rimane vivere con la consapevolezza della vita che ti hanno sottratto. (...)

Alla luce di un’elezione presidenziale in cui l’esperienza delle donne è stata considerata irrilevante, se non addirittura falsa, da milioni di americani, uomini e donne, è stato difficile scrivere questa prefazione con animo lieto. Forse è proprio l’emergere di un numero sempre maggiore di episodi di stupro e aggressione sessuale a rappresentare il nostro più grande progresso. È ovvio che questo progresso sia insufficiente e tardivo, e che vi siano ancora troppi casi in cui giovani appartenenti a classi privilegiate se la sono cavata con l’equivalente di una semplice bacchettata sulle mani, anche se in tribunale è stato dimostrato che erano stupratori impenitenti. Ma dato che un’azione collettiva può aver luogo solo a patto che vi siano abbastanza voci per poter formare un collettivo, si tratta pur sempre di un inizio. Mentre scrivo queste parole lo stato della California ha abrogato la prescrizione per i reati di stupro: una dimostrazione del potere che acquisiscono le vittime quando raccontano la propria storia.

Un altro esempio straordinario dei progressi che si possono ottenere grazie a un’azione collettiva è il documentario del 2015 The Hunting Ground — Il lato oscuro del college. È incentrato su due giovani vittime di stupro, Annie E. Clark e Andrea Pino, iscritte all’università della North Carolina, a Chapel Hill, e violentate da alcuni colleghi. Dopo l’ulteriore oltraggio rappresentato dalla mancanza di sostegno da parte dell’università Clark e Pino crearono dal basso una rete di vittime di violenze sessuali avvenute in vari college del Paese e, tutti insieme, denunciarono le rispettive università per discriminazione in base al Titolo IX degli Education Amendments del 1972. Tale articolo stabilisce che ogni istituzione scolastica ha il dovere di assicurarsi che tutti gli studenti abbiano identico accesso all’istruzione, a prescindere dal sesso, dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere. Ciò implica che una scuola o un’università possono essere ritenute legalmente responsabili se non si attivano a fronte di una denuncia di molestie o violenze sessuali da parte di un loro studente e non mettono in atto adeguate misure per garantire la sicurezza e il benessere della vittima. Il documentario spiega inoltre per quale motivo mettere a tacere le accuse di stupro è attualmente la scelta prediletta da chi riveste ruoli di potere. (I registi hanno dichiarato che è stata la reazione suscitata nei campus universitari dal loro precedente documentario, The Invisible War, riguardante gli stupri all’interno dell’esercito, a spingerli a girare The Hunting Ground — Il lato oscuro del college).

Il film mette a nudo fino a che punto le università siano disposte a spingersi pur di proteggere i potenziali colpevoli dalle proprie vittime, in nome dell’onnipotente dio denaro. Gli incentivi economici a piantare in asso le vittime per difendere i colpevoli sono troppo consistenti per poterli ignorare, perché spesso i colpevoli sono star dello sport il che si traduce in introiti per le istituzioni scolastiche da loro frequentate — o fanno parte di qualche confraternita universitaria che gode di forti finanziamenti. Una denuncia per stupro mette a repentaglio il sostegno da parte degli ex allievi e le future iscrizioni di studenti ricchi, e anche se — forse a rischio e pericolo dei nostri figli — partiamo dal presupposto che il compito di un’università sia accudire e istruire tutti i suoi studenti, le istituzioni dotate di importanti dipartimenti sportivi, magari con squadre a livello nazionale che accrescono il prestigio dell’istituto, finiscono col rendersi colpevoli di ulteriori abusi nei riguardi dei loro studenti. Proprio come molte nazioni minimizzano l’incidenza delle violenze sulle donne per non danneggiare il turismo, molte università preferiscono mantenere genitori e studenti all’oscuro di una minaccia estremamente concreta.

Ma se perfino nell’ambiente di quelli che vengono ritenuti “studi superiori” chi denuncia un’aggressione sessuale da parte di un altro studente viene spesso accusato di mentire, sia dall’amministrazione sia dai colleghi, perché meravigliarsi che una copia pressoché esatta di questa forma di ingiustizia si sia verificata ripetutamente durante la campagna per le ultime elezioni presidenziali? Donald Trump ha affermato e/o insinuato che tutte le donne che lo avevano accusato di averle fatte oggetto di attenzioni indesiderate o, peggio ancora, di averle palpeggiate erano bugiarde. Ha anche dichiarato che molte di loro non erano belle, quasi a sottintendere che essere molestate da lui è un onore, e che non le riteneva abbastanza sexy da concederglielo. In seguito alle smentite di Trump e al loro tono, simili commenti denigratori, ulteriormente e disgustosamente arricchiti, hanno trovato eco tra alcuni sostenitori della sua campagna elettorale. Quelle donne, dopo aver trovato il coraggio di raccontare episodi che non avrebbero mai voluto rendere di pubblico dominio ma che avevano deciso di rivelare per il bene del proprio Paese, in ultima analisi hanno contato zero per la coscienza di una larga fetta di elettori. (...)

In tutto il mondo le donne sono una classe oppressa. In molti luoghi sono trattate peggio degli animali, ai quali viene riconosciuto maggior valore. Il corpo della donna è un bene di cui si fa commercio con facilità per ricavarne profitti o un innalzamento del proprio status. Quando una donna viene violata contro la propria volontà spesso la colpa è attribuita alla donna stessa, e la famiglia e la comunità se ne sbarazzano come se fosse uno straccio lurido. Ricordo di essere rimasta atterrita la prima volta in cui ho sentito parlare della credenza diffusa in Sudafrica secondo cui violentare una vergine guarirebbe dall’Aids. Una credenza in virtù della quale l’incidenza degli stupri individuali e di gruppo, molti dei quali con esito letale, ai danni di bambine al di sotto dei cinque anni d’età ha subìto un’impennata.

All’epoca della pubblicazione di Lucky avevo trentasette anni; adesso ne ho cinquantaquattro. Proprio come quando ne avevo diciotto, credo ancora che la chiave per operare un autentico cambiamento sia collegare ai crimini sessuali nomi e volti di singoli individui. Una delle copertine più incisive degli ultimi anni è stata quella della rivista New York del luglio 2015. Vi comparivano le foto di trentacinque donne che avevano accusato pubblicamente Bill Cosby di violenza. Erano ritratte in quattro file che correvano lungo la pagina bianca, sedute su sedie tutte uguali. L’ultima era vuota, a sollevare il problema di quelle che avevano ancora troppa paura per parlare.

È trascorso poco più di un anno tra il mio stupro e il processo. Durante quei dodici mesi c’è stato un arresto, seguito da una procedura per il riconoscimento dell’aggressore e da alcune mozioni e udienze preliminari; poi il processo vero e proprio, costellato da numerose telefonate riguardanti dettagli di cui era necessario occuparsi. Le notti in cui riuscivo a dormire erano in genere piene di incubi. Altre notti rimanevo sveglia al buio e immaginavo di capeggiare un movimento per convincere donne famose vittime di stupro a rivelare il proprio passato. Non che augurassi del male a nessuna, ma non riuscivo a fare a meno di pensare a quali effetti dirompenti si sarebbero sprigionati se la regina Noor di Giordania, o la campionessa olimpica Jackie Joyner-Kersee, o Sandra Day O’Connor, che allora era appena stata nominata giudice della Corte suprema, avessero subìto ciò che avevo subìto io e ne avessero parlato apertamente. Ricordo che mia madre o mio padre mi avevano raccontato di un’attrice che era stata violentata, e per me quella notizia era stata una benedizione. Eccola lì, una donna realizzata nella propria professione e famosa ormai da decenni. E per di più sposata da molti anni e icona di bellezza.

Il 19 settembre 2014 ho letto un articolo di Charles M. Blow sul New York Times. Blow è un giornalista politico e culturale e raccontava di essere stato molestato da un cugino più grande quando era bambino. Piansi e alzai il pugno. Le lacrime erano di pura solidarietà, il pugno derivava dal fatto che sapevo quale potere avrebbe esercitato la sua storia sugli uomini che erano stati vittime di violenze sessuali ed erano rimasti in silenzio per anni. Per secoli la vergogna e il conseguente silenzio legati ai crimini a sfondo sessuale hanno precluso ogni speranza di acquisire forza facendo numero. E anche se nessuno desidera avere i titoli per entrare a far parte di questo gruppo, l’unica alternativa è l’isolamento, in primo luogo da sé stessi e, di conseguenza, anche dagli altri. Tutto ciò rende impossibile stabilire un’autentica intimità tra le persone. Lo stupro non riguarda il sesso ma si serve dell’atto sessuale per esercitare la violenza; la vera intimità non riguarda il sesso, ma quest’ultimo è uno dei modi più inequivocabili per esprimere l’amore. Anche se le vittime di stupro troppo spesso non vengono credute, oppure sono sconfessate o umiliate, è innegabile che si siano verificati dei cambiamenti positivi. Grazie all’aumento delle denunce e all’avvento di Internet i cittadini hanno cominciato ad alzare la voce in prima persona per protestare contro casi evidenti di ingiustizia. Nel processo Turner, uno studente della Stanford University è stato dichiarato colpevole di aver violentato una donna in stato di incoscienza servendosi di un corpo estraneo. È stato condannato a soli sei mesi di prigione e ne ha scontati appena tre. I cittadini indignati hanno preteso la destituzione del giudice, mentre la veemente dichiarazione della vittima è andata in onda sulla Cnn, è stata pubblicata in Rete ed è stata letta da oltre dieci milioni di persone.

Più numerosi sono i partecipanti a manifestazioni come quelle indette sull’onda del caso Turner, maggiori sono le probabilità che le donne e gli uomini che hanno subìto violenze sessuali comprendano che ciò che gli è capitato non ha niente a che fare con ciò che sono, ma è legato al fatto che i loro assalitori sono dei criminali pervertiti, anche se si nascondono sotto le vesti di un padre amorevole, un atleta universitario, un allenatore o un uomo d’affari miliardario. (...)

All’epoca in cui sono stata violentata nessuno usava il termine “sopravvissuto” per indicare chi aveva subìto esperienze simili; certi sottili mutamenti semantici non avevano ancora fatto presa. E prima del mio stupro anche l’idea che “vittima” non fosse solo una parola ma potesse designare un’identità mi era ignota, perciò non avevo mai considerato l’espressione “vittima di stupro” se non come un semplice descrittore. Ero la vittima di uno stupro allo stesso modo in cui ero bruna, o cittadina degli Stati Uniti, o figlia di un alcolizzato. Erano tutte verità assodate. Ma ho cominciato a subire rimproveri ogni volta che dimenticavo di usare la parola “sopravvissuto” al posto di “vittima”. Nelle interviste che rilasciavo dopo essere diventata scrittrice i giornalisti, o forse i loro direttori, facevano clic sul tasto “sostituisci tutto” e senza il mio consenso cambiavano “vittima” in “sopravvissuta”. Continuai ostinatamente a usare “vittima” nelle occasioni pubbliche, dove alcuni spettatori particolarmente solleciti mi facevano presente che ciò che apprezzavano di me era proprio il fatto che evidentemente non fossi mai stata una vittima, che fossi una sopravvissuta in tutto e per tutto. La mia reazione alla controversia “vittima o sopravvissuto” è trovare un compromesso. Sono disposta a riconoscere di essere entrambe le cose, ma innanzitutto sono una scrittrice. La cosa più importante per me è conservare il diritto di scegliere le parole.