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Napoli: disastro o capolavoro?

Autore: Diego De Silva
Testata: Sette - Corriere della Sera
Data: 18 gennaio 2018
URL: http://www.corriere.it/sette/18_gennaio_18/napoli-disastro-o-capolavoro-elena-ferrante-gomorra-paolo-sorrentino-pino-daniele-camorra-film-romanzi-serie-tv-a5c1285c-f9ea-11e7-b7a0-515b75eef21a.shtml

Elena Ferrante e Gomorra, Paolo Sorrentino e Pino Daniele, i tour sulle tracce dei camorristi televisivi e la gente comune che si ribella ai cliché : Napoli è al centro di un’ondata di film, romanzi, serie tv. L’ossessione collettiva è spiegarne l’identità. Ma nessuna opera d’arte o inchiesta riesce a catturarla. Non è questa l’essenza della seduzione?

Le città bestseller, quelle di cui hai un’idea vagamente definita anche se non ci sei mai stato (sono come dei racconti, a cui sei portato a credere fidandoti del gusto e dell’esperienza altrui), e quando vai a visitarle ti accolgono, t’ignorano o ti respingono (perché sono qualcuno e non qualcosa, e fin dall’inizio producono un attrito, lasciandoti l’impressione nitida di un carattere), vengono comunemente definite ricorrendo alla più ambigua delle categorie, quella della bellezza. Quando diciamo che quella città è bellissima, in fondo, non sappiamo cosa dire, e infatti non abbiamo detto niente. Ripieghiamo su un aggettivo estremo, ma sostanzialmente impreciso, perché sappiamo che entrando nel dettaglio diremmo qualcosa e non tutto, come rilasciassimo una dichiarazione reticente, omissiva di alcuni aspetti a favore di altri, per adeguarci alla misura breve della definizione.

FRA LE CAPITALI DIVENTATE dei brand dell’immaginario, la più inclassificabile (e forse proprio per questo, la più accusata e difesa), la città-ossimoro per eccellenza, è Napoli. Non c’è occasione – dall’Oscar a Sorrentino al successo oltreoceanico di Elena Ferrante, dall’arresto di un latitante scoperto in qualche loft sotterraneo alla lista di richieste d’alloggio nella camera d’albergo usata da Ciro Di Marzio nella terza stagione di Gomorra – in cui Napoli non torni alla ribalta del pregiudizio collettivo, riaccendendo la disputa tra detrattori d’ufficio e difensori di fiducia, quasi che il suo destino sia quello di essere sempre spiegata, interpretata e tradotta, come avesse bisogno di un tutor, una balia dal Q.I. superiore che le dica che cosa ha fatto e perché. Nessun’altra città italiana subisce lo stesso assedio ermeneutico: Napoli è il capoluogo che conta in assoluto il più alto numero di tentativi d’interpretazione, un po’ come la Settimana Enigmistica con le riviste imitatrici concorrenti. La bega più recente, quella tra gli oltranzisti del raccontare il male senza sconti e i “Napoli non è solo camorra”, che non ne possono più di passare per residenti in una città infestata dal crimine (ma in mezzo ci sono tanti che vedono Gomorra – La serie come seguono Narcos o I Soprano senza che gli venga voglia di sparare a nessuno o di coltivare ambizioni di controllo di una piazza di spaccio, e magari vanno a vedere la stanza d’albergo di Ciro “Ailandèr” con uno spirito non dissimile da quello dei fan di Camilleri in pellegrinaggio alla casetta di Montalbano, spinti dal desiderio di fantasticare in 3D, corporizzare l’immaginario televisivo – in un certo senso, credere che esista – e non d’immedesimarsi in un volgare boss che quando bussano alla porta mette mano alla pistola), è un esempio tipico dell’incontinenza polemica e della voglia di contenzioso che Napoli scatena nei suoi commentatori.

VI RISULTA CHE ROMA (così, per fare un esempio a caso), che tra spelacchi, testate in faccia in streaming diventate virali e mafie capitali declassate a delinquenza professionale ordinaria (solo per nominarne qualcuna) ha appena cominciato a capire cosa si prova a sentirsi addosso il pregiudizio di città sommersa da problemi irrisolvibili (nonostante il peggioramento sia in corso da parecchi anni), e pure diventa frequente zimbello del dibattito pubblico, debba ogni volta star lì a sorbirsi il predicozzo di chi la inquisisce e chi la difende, aspettare la condanna o l’assoluzione, sentendosi puntualmente processare il popolo come principale responsabile della sua condizione (perché poi – non si capisce perché – pare che i napoletani siano artefici della propria sorte, mentre altrove la colpa è sempre di chi governa)?

Le strade del centro storico sono molto presenti al cinema e nei romanzi. Negli ultimi 12 anni, gli incassi di opere ambientate a Napoli hanno reso alla città 160 milioni di euro, senza contare gli introiti del turismo Le strade del centro storico sono molto presenti al cinema e nei romanzi. Negli ultimi 12 anni, gli incassi di opere ambientate a Napoli hanno reso alla città 160 milioni di euro, senza contare gli introiti del turismo

IL FATTO È CHE NAPOLI – con mai ritrovata pace dei contendenti – è sempre un passo più avanti delle letture che se ne fanno (per non dire del gossip mediatico che periodicamente l’addita come cattivo esempio o ne elogia paternalisticamente l’accoglienza per svalutarla), e non c’è analisi, inchiesta giornalistica o giudiziaria né opera d’arte che riesca a raccontarla davvero, così come non c’è delitto che la corrompa nel profondo. La sua bellezza, forse, consiste proprio nell’attitudine a conservare la sua identità, nell’essere sempre altrove rispetto al punto in cui ti aspetteresti di trovarla. Non è questa, in fondo, la chiave della seduzione? Non siamo forse attratti da ciò che non si lascia catturare, che c’invita e si allontana, ci accoglie e ci abbandona, è nostro ma libero? NAPOLI, COME SA CHIUNQUE LA CONOSCA anche pochissimo, si rivela nel corpo a corpo: è una città, come poche altre, che fin dal primo momento coinvolge fisicamente chi l’attraversa. Napoli disinibisce, avversa la mediazione e l’autorappresentazione, dà confidenza e se la prende, appiana la relazione con l’altro. Anche il più ingessato dei turisti a Napoli si toglie qualcosa di dosso, rinuncia a un po’ di sé, parla con maggiore scioltezza, viene prima al punto. Insieme, si difende e si rilassa. È questo riflesso emotivo fatto di tensione e d’incanto, timore e ammirazione, cautela e fiducia, che Napoli sollecita in chi l’approccia, a farne una città erotica (del resto, anche la pericolosità di una città è una ragione di fascino: lo raccontano i Manetti Brothers in un esilarante paradosso del film Ammore e malavita, dove dei turisti antropologicamente esaltati vagano per Scampia nella speranza che li rapinino). La cifra della sua bellezza è la dissipazione: ne ha così tanta, inaddomesticata, randagia e anarchicamente distribuita, che vagare fra i suoi quartieri è una rivelazione continua. Come potrebbe, una città che vive da decenni una guerra fredda tra società civile e illegale, e non ha mai ceduto alla seconda (perché Napoli – alla faccia di qualunque violenza tenti d’infangarla – rimane un avamposto di umanità, capace di gesti di quotidiana gentilezza sconosciuti altrove), non partorire o adottare dei figli d’arte? Un luogo che cova così tanti opposti; una tra le poche capitali europee che ha conservato il proletariato nel ventre, azzerando il confine tra periferia e centro, sviluppando l’attitudine di anticipare le trasformazioni sociali; una capitale dove la realtà cambia (nel bene e nel male) prima che altrove, e ha pochissimo lavoro da offrire, è abbastanza logico che produca artisti (perché l’arte – ricordiamocelo – viene anche dalla disoccupazione: anzi, l’occupazione spesso rovina l’arte, giacché non c’è artista peggiore di quello part-time). Quello che colpisce, piuttosto, è il successo che la letteratura, il cinema, il teatro, la musica e molte altre forme espressive generate a Napoli continuano a riscuotere da decenni. Più ancora, impressiona la solitudine in cui la maggior parte degli intellettuali e degli artisti che si sono affermati nel loro campo hanno prodotto le loro opere e sono stati in grado, con pochissimi supporti e fuori da una comunità riconosciuta – senza poter contare sulla presenza di una grande casa editrice, per esempio – a creare un pubblico, moltiplicarlo e conquistare una leadership non solo in Italia ma anche in giro per il mondo. Sarà l’irrequietezza della solitudine e dell’abbandono ad essere causa di tanta creatività: quella smania da sottomissione che cantava Pino Daniele in un suo vecchio pezzo brevissimo e immenso, l’ansia che agita il sonno di chi non ha mai scelto e ha perso il senso di quanto vale (E prova a te girà/ pe’ dinta ‘o lietto ‘e notte/ c’arteteca ‘e chi è stato tutt’a vita ‘a sotto/ pecché nun sape maie chello che dà).

MA C’È UN’ALTRA NAPOLI, oltre a quella al centro dell’ammirazione e della detrazione, che non produce ricchezza e nemmeno arte, non ha peso sociale né voce e vive di poco, in una rassegnazione che nessuno racconta. L’hanno fatto, con un lavoro iniziato circa vent’anni fa, due registi romani, Agostino Ferrente e Giovanni Piperno, con l’ausilio di una giovane intellettuale napoletana da sempre nella trincea del sociale come Antonella Di Nocera, in un documentario tra i più belli realizzati in questi anni dal titolo Le cose belle, che mostra il quotidiano di quattro ragazzi nati e cresciuti in condizioni di difficoltà, incontrati da bambini prima e da ventenni poi, che hanno scelto la dignità e non la delinquenza, rinunciando alle cose belle che sognavano da ragazzini (diventare calciatori, cantanti, ballerine o semplicemente sposarsi e avere dei figli). Un film necessario perché ritrae senza alcun patetismo una generazione sprecata, che non conosce autoindulgenza e anzi, in perfetto istinto napoletano di autoconservazione, mantiene intatta la sua bellezza anche nella rassegnazione e sorprende per lucidità, tenerezza e finanche senso dell’umorismo, ogni volta che guarda nella luce rossa della telecamera e inventa parole. È questa Napoli rimossa, oggi, quest’altra società civile che non parla e non conta, e invecchia nell’attesa – come nel Blues di altre date di Fabrizio De André – che qualcosa cominci, che va raccontata e riconosciuta, perché è figlia come le altre, e ha diritto al cognome.