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Esistenze di colpo ferme

Autore: Giulio Busi
Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 21 gennaio 2018

Le dita si muovono veloci, sapienti. Il fondo è già quasi finito. I vimini, ben stretti gli uni agli altri, reggeranno un grande peso. Ora vanno cominciati i fianchi, finché, salendo, non si arriverà al bordo. Qualcosa, qualcuno s'intromette. Il lavoro s'interrompe a metà, quando ancora è troppo presto per usarlo, quel cesto. L'intreccio si protende nel vuoto, incompiuto, sguarnito. La grande, infaticabile Cestaia ha perso la sua solita lena. Nell'estate 1938, la vita di tutti i giorni, quella che intreccia rametti di gioia e di dolore, e li serra gli uni agli altri con abilità inimitabile, lascia cadere le braccia. Delusa, stupefatta, esausta. Non per tutti, però. Per alcuni, per gli ebrei, l'esistenza normale si ferma di colpo. Quasi senza preavviso, e quasi senza che gli altri, attorno, vi facciano gran caso.

Le leggi razziali, meglio si direbbe razziste, sono lì, a ottanta anni di distanza, per ricordarci una vergogna collettiva, fatta di cinico calcolo politico, di malafede e di rancorosa disattenzione da parte della maggioranza del Paese. Ci sono molti modi per raccontarlo, questo tradimento della ragione e della convivenza. Si possono, e si devono, raccogliere e vagliare i documenti storici. Oppure ci si può inoltrare nei ricordi di chi quell'estate di tanti anni fa l'ha ancora stampata nella mente. Lia Levi, in Questa sera è già domani ha scelto una via diversa. Prende spunto da una vicenda vera, ma lo fa con la naturalezza di chi è in grado di evocare il passato attraverso i dialoghi, i sentimenti, le azioni di personaggi di carta e inchiostro. Siamo insomma al confine tra storia e letteratura. La prima offre la materia, il ruvido canovaccio della discriminazione degli ebrei, voluta dal fascismo. La seconda mette a disposizione l'abilità di dire senza nominare, di lasciar trapelare, di farci vedere di riflesso, per luci diagonali.

Una famiglia discretamente benestante e altrettanto discretamente annoiata. Tiepidamente fedele alla tradizione ebraica, la madre, Emilia. Lontano dalla religione il padre, Marc Rimon, segnato da una certa esotica estraneità, sebbene si sia perfettamente inserito e parli italiano senza nessun accento. «Belga di nascita, famiglia trapiantata in Olanda, Inglese di passaporto e francese di madrelingua, pareva il riassunto dei vigorosi passi che gli ebrei avevano compiuto in lungo e in largo in un'Europa sempre più libera e modernizzata». Ma il vero protagonista è lui, il figlio unico, Alessandro. Quando il libro prende l'avvio, tutti sono stregati dai suoi talenti e dalla sua simpatia. Ha imparato a leggere a quattro anni. A scuola salta una classe dopo l'altra; in casa la fa da protagonista con i suoi giochi di parole e la sua candida spontaneità. «Certe volte non riusciva a finire un discorso perché si incantava di fronte a una parola, se la rigirava fra le mani come se avesse trovato una cosa preziosa e ci si impuntava sopra in una specie di balbuzie amorosa. Poi rideva e anche gli altri ridevano, con un po' di sconcerto». Un piccolo genio, insomma, che sembrerebbe destinato a un futuro ambizioso. Levi disegna questo bambino così precoce con grande abilità e segue, quasi con apprensione, il carico sempre maggiore di attese e di progetti che lo circonda. Ed è quasi con un sospiro di sollievo che capiamo, a un certo punto, che Alessandro, pur con tutte le sue doti, non è poi così straordinario. Sottoposto all'invidia e alle prepotenze dei compagni, e anche per incapacità propria, si deve accontentare di un rendimento scolastico un po' più opaco dell'abituale. Inanella qualche sei e torna a essere più normale. E ancora più simpatico. Non fosse che, per essere normale, il nostro piccolo quasi-prodigio ha scelto il periodo sbagliato. Il contrasto tra il tempo della famiglia e degli affetti e quello pubblico, sociale, non potrebbe essere più stridente.

«Le avete viste le notizie?» - la voce di mamma Emilia è stridula. «Parlano tutti degli ebrei. Lo sapevate che siamo troppi? Stiamo incominciando anche qui come in Germania?». Così, con una reazione di sorpresa e di angoscia, la trama di gioie e affanni si arresta senza preavviso. È l'estate 1938. Come tutti gli ebrei italiani, che sino a quel momento sono stati, e si sono sentiti, a casa propria nello Stato unitario, cui tanto hanno contribuito, i Rimon devono accollarsi il fardello della discriminazione. Nessuno ci vorrebbe credere. Gli italiani sono diversi, si dice, e poi Mussolini non è Hitler. Ma Alessandro viene cacciato dalla scuola. E il babbo è raggiunto da un decreto d'espulsione, come ebreo straniero. Anche se qualche amicizia altolocata riesce a farla revocare, quell'espulsione, gli affanni cadono l'uno sull'altro. Memorabile la ricostruzione della grande riunione di famiglia, in una grande ed elegante villa di Livorno, con i membri che accorrono dagli angoli d'Italia per decidere il da farsi. Restare, emigrare? E dove poi? Non tutti hanno i mezzi per affrontare l'emigrazione. E ancor meno sono quelli che si rassegnano a lasciare il paese dove sono nati, le abitudini, gli affetti. Alessandro gioca con gli altri ragazzi nel giardino della villa, origlia i discorsi dei grandi, partecipa, capisce. Lui, di suo, partirebbe anche subito. Ma il babbo decide altrimenti. Si torna a Genova, si aspetta che passi, si cerca di continuare a vivere. «Gli sembrava che tutto procedesse come se un treno, dopo aver deragliato, continuasse la sua corsa sul terreno infido, pericoloso, pieno di buche, ma pur sempre terra ferma e in qualche modo rassicurante». Quanto poco quella terra fosse ferma, lo sappiamo oggi tutti. Cosa aspetti Alessandro e la sua famiglia, dopa l'8 settembre 1943, lo lasciamo invece scoprire al lettore di questo bel libro. Sembra che per loro, almeno per loro, la grande Cestaia abbia ripreso a intrecciare i propri vimini di colori contrastanti. Una banda di ladri, per metà farabutti e per metà galantuomini, documenti falsi, filo spinato, paura da morire: all'ultima pagina, Levi ci svela il segreto che s'è tenuta per duecento pagine. «Il documento qui a fianco è il modulo originale di accettazione della dogana svizzera di mio marito, Luciano Tas. A lui e alla sua storia è ispirato questo romanzo». La si può dire in vari modi. Con i documenti, coi ricordi, o in un romanzo. Quella delle leggi razziste del 1938 è comunque storia vera. Vera e vergognosa.