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Romanzi che decifrano la Storia

Autore: Goffredo Fofi
Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 18 febbraio 2018

È solo una coincidenza, credo, che le edizioni e/o abbiano appena pubblicato un romanzo dell'austriaco Ernst Lothar, Una viennese a Parigi (il titolo originale era La testimone. Diario parigino di una viennese, prima edizione del 1941 negli Usa, prima edizione nella lingua originale a Vienna, nel 1951), e che la traduzione del libro francese di Eric Vuillard coronato dall'ultimo Goncourt, L'ordre du jour (Actes Sud) sia annunciata ancora da e/o per i primi di settembre, perché Vuillard ricostruisce l'evento-chiave del romanzo di Lothar, l'invasione dell'Austria da parte tedesca nel 1938. L'ampio romanzo di Lothar - uno scrittore sfuggito chissà come all'attenzione della Adelphi - è costruito in forma di diario, il diario di una giovane viennese impiegata in una ditta cinematografica che si fa trasferire a Parigi non sopportando l'idea di un'Austria in mano ai nazisti. Parigi le appare, quando vi arriva, come una città ancora felice, ma su Franzi/Françoise grava il peso di un rimorso, dell'abbandono della sua Vienna e della sua Austria. Comincia a scrivere il suo diario a Parigi, 10 aprile 1938, e lo chiude nella stessa città il 13 agosto del 1940, prima di venir giustiziata per aver ucciso un SS. L'autore dice, come tanto spesso si è fatto, che questo diario gli è stato consegnato da qualcuno nel 1940 a New York. È un ottimo romanzo, Una viennese a Parigi, di lettura avvincente anche perché a suo modo tradizionale (la forma diaristica è sin dal Settecento una delle più diffuse nella storia del romanzo) come è di un altro romanzo di Lothar pubblicato da Mondadori nel 1982 col titolo di L'angelo musicante, che e/o ha riproposto quattro anni fa chiamandolo La melodia di Vienna. (Lothar, morto nel 1974, si occupava in origine di teatro, fuggì in America perché ebreo, e tornò a occuparsi di teatro a Vienna nel dopoguerra, con un ruolo tutt'altro che secondario nella storia del teatro austriaco e più in generale di lingua tedesca del Novecento.)

Il rapporto tra questo romanzo, in definitiva tradizionale, e il récit di Vuillard è solo di epoca, di sfondo, perché il punto di partenza di entrambi è l'invasione di Vienna, lo "scoppio" di una guerra ben presto mondiale. Il protagonista di L'ordre du jour non è un personaggio più o meno immaginario, ma... la Storia con la maiuscola, la storia politica e di conseguenza militare e di conseguenza sociale e collettiva in cui i potenti del mondo lo hanno travolto e continuano a travolgere il mondo.

Il libro di Vuillard - che a me sembra tanto suggestivo quanto esemplare - spero possa aprire una discussione anche in Italia quando uscirà, sui destini del romanzo detto post-moderno. Lo si è detto, Vuillard lo definisce un récit, e credo lo abbia affermato per tutti i suoi libri (ha cinquant'anni e ha cominciato a pubblicare intorno ai trenta). Conosco solo un altro suo libro, abbastanza recente, sul 14 juillet, il giorno della Bastiglia, la data centrale di una grande rivoluzione, e e si tratta di un récit di portata assai ampia, ma più gonfio e a tratti prevedibile di L’ordre du jour, che è un libro davvero importante e nuovo anche se ha modelli che piega a una proposta per oggi, ed è perfettamente controllato e calibrato, un punto di arrivo o un punto di nuova partenza.

L’ordre du jour afferma un modo di narrare che prende dalla storia e dalla letteratura, dagli storici e dai narratori, riuscendo a convogliare i loro insegnamenti in uno stampo in parte nuovo, o comunque poco frequentato, sorretto da una soggiacente e matura riflessione su un modo attuale (e dunque “post-moderno”) di affrontare la storia per trarne una lezione, ricordandoci le colpe delle classi dirigenti nello scatenarsi dei conflitti e nel loro svolgersi.

L’ordre du jour comincia con un incontro (vero) di industriali tedeschi con Hitler e altri leader nazisti, da un patto sciagurato tra un’economia e un’ideologia, e termina con un dopoguerra che vede sopravvivere, nonostante Norimberga, le grandi famiglie del capitalismo tedesco. Il libro ha significativamente in sovracoperta una foto d’epoca di uno dei Krupp. Al fondo di questo libro, che minuziosamente ripercorre un momento centrale della storia del Novecento – l’invasione e nazificazione dell’Austria – c’è una fredda indignazione, c'è la coscienza di una storia che può ripetersi e si ripete, e c’è, filtrata attraverso una documentazione mai mostrata (via le note a pie’ di pagina, via le sfibranti bibliografie dei libri degli storici, ma via anche l’approssimazione dei narratori che piegano la storia alle loro fantasie) un’indignazione che vuol mettere in guardia ricostruendo i modi in cui la storia agisce, in cui i potenti si rapportano tra di loro alleandosi o scontrandosi a seconda dei loro interessi, ciechi di fronte ai demoni che hanno contribuito a evocare, a eccitare, a proteggere. La ricostruzione delle giornate dell’invasione, tra incontri di diplomatici e di politici, è di una precisione che gli storici apprezzeranno ma che sa evocare senza parere anche gli aspetti grotteschi della Grande Storia, quelli alla Lubitsch e non solo alla Brecht.

Come tradurre récit? Il modo più ovvio è narrazione, ma può essere anche racconto, e si tratta in generale del resoconto di un’esperienza diretta o indiretta che in ogni caso implica una verità, il contrario di un’invenzione. È qualcosa che sta a cavallo tra il lavoro dello storico e quello del narratore, è qualcosa di antico, non di nuovo (o di “postmoderno”) ma che Vuillard piega a bisogni nuovi, a un progetto nuovo, all’idea, forse, di una nuova epica. È anche, mi pare, la proposta di una via d’uscita dall’invasione di un io troppo personale che è tipica del romanzo attuale e dalla mescolanza abusiva che ne consegue tra realtà e invenzione. Vuillard rivendica alla letteratura il compito di illustrare la Storia, di far ragionare sulla Storia, ma anche di mostrare i pericoli del presente partendo dalla ricostruzione del passato. La sua è, almeno qui, una requisitoria contro la Storia e i modi in cui il potere la manipola, ma è anche la rivendicazione di un compito letterario anti-narcisista. Una letteratura, insomma, altamente civile, sorretta da una straordinaria maturità retorica. Rifiuta gli abusi dell’io, richiama alla centralità della Storia e dell’economia, e rifiuta altresì la strada del documentario, del reportage, dell’inchiesta. Ma a ben vedere fa inchiesta anche lui, come certi grandi scrittori della più coinvolta letteratura recente, da Kapuscinski ad Aleksievic a Westerman, da De Lillo a Pynchon a Bolaño e ad alcuni nostri pregevoli loro allievi, ma la fa sulla Storia, con tutta l’abilità dell’accorto compulsatore di documenti ma anche del grande romanziere.