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Perché Erdogan minaccia anche noi

Autore: Roberto Saviano
Testata: L'Espresso
Data: 25 febbraio 2018

Nei giorni scorsi la giustizia in Turchia è stata protagonista, di nuovo, del dibattito pubblico. Asli Erdoğan, scrittrice e giornalista arrestata dopo il colpo di Stato dell’agosto 2016 con l’accusa di «propaganda terroristica», «appartenenza a un’organizzazione terrorista» e «incitazione al disordine», scrive: «Credetemi, non è facile essere scrittoriegiornalistinellaTurchiadioggi.[...] Se fossi francese sarei trattata così? Non credo e questo è anche colpa di noi turchi: il problema è che la letteratura, qui, non è considerata».

Di Turchia si è parlato per due notizie molto diverse tra loro che riguardano arresti inspiegabili, carcerazioni preventive, condanne disumane e scarcerazioni tanto immotivate quanto sacrosante. In Turchia il diritto è incerto, in Turchia intellettuali e giornalisti non sanno perché vengono arrestati e non sanno nemmeno perché vengono rilasciati. Deniz Yucel, corrispondente in Turchia del quotidiano tedesco Die Welt, è stato arrestato un anno fa e per oltre 365 giorni è rimasto agli arresti preventivi senza che nessuna accusa fosse formalizzata. Il suo rilascio è avvenuto dietro pressione della Germania. Deniz Yucel, quando è stato scarcerato ha pronunciato le stesse parole che aveva pronunciato Asli Erdoğan al momento della sua scarcerazione: «Non so perché sono stato arrestato. E non so perché sono stato liberato».

A questo si aggiunge il sospetto, che ci mette poco a diventare senso di colpa, di trattative giocate sulla pelle dei prigionieri stranieri che non hanno fatto altro che il loro lavoro. Un’intervista a un oppositore politico del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan può valere un arresto e una condanna.

In questo momento, come conseguenza del fallito golpe, in Turchia ci sono oltre 50mila detenuti, arrestati con l’accusa di golpismo o associazione a organizzazione terroristica di matrice gülenista o curda, e oltre 100mila persone hanno perso il lavoro.

In questo momento in Turchia i giornalisti stranieri, dopo lunghe trattative, vengono liberati mentre i giornalisti turchi, per i quali nessuna pressione straniera può avere peso, vengono condannati all’ergastolo, a condizioni di carcerazione durissime.

I fratelli Ahmet e Mehmet Altan, la giornalista Nazli Ilicak, Fevzi Yazici, Yakup Simsek e Sukru Tugrul Ozsengul, sono accusati di aver tentato di «rimuovere l’ordine costituzionale» e per questo sono stati condannati all’ergastolo. Con questa condanna, se qualcuno avesse ancora nutrito qualche dubbio, lo stato di diritto in Turchia è stato deinitivamente sepolto.

La pena comminata è la più severa, è il massimo della richiesta dell’accusa: il carcere duro, per i sei intellettuali, vorrà dire 23 ore di isolamento al giorno e la possibilità di ricevere visite una volta ogni 15 giorni. Una tortura e un monito allo stesso tempo; non solo un monito per i cittadini turchi, ma anche per noi europei, giornalisti, scrittori e intellettuali, che dobbiamo sapere esattamente con chi avremmo a che fare qualora volessimo occuparci di Turchia. Come è possibile non ricordare le parole profetiche di Marco Pannella, che soleva ribadire l’importanza vitale dell’ingresso nell’Unione Europea di Israele e Turchia. Pannella, che è stato un intellettuale rainatissimo, si riferiva alle origini europee dello Stato di Israele e allo stesso tempo all’importanza che Bisanzio ha avuto nella cultura e negli equilibri politici degli Stati che oggi fanno parte dell’Unione europea. Scontiamo una colpevole mancanza di ascolto; scontiamo, e i colleghi in carcere in Turchia sono le vittime consacrate, la mancanza di visione e di pragmatismo. Tutto quello che stiamo vivendo era già scritto, ma gli interessi particolari e l’incapacità di includere hanno reso i conini orientali dell’Europa una bomba a orologeria.

E parlando di carcere il pensiero, come è naturale che sia, va al nostro sistema penitenziario che, per rispettare la bellissima Costituzione di cui tanti parlano, ma che in pochi davvero si preoccupano di vedere applicata, necessiterebbe di quelle riforme per le quali Rita Bernardini e quasi 10mila detenuti hanno messo in atto un grande satyagraha, uno sciopero della fame, un vero esempio di protesta civile, una lezione per tutti noi che stiamo fuori, una lezione da chi ha sbagliato e per questo oltre ad aver perso la libertà, nelle nostre carceri, sta perdendo anche la dignità.