La vicenda giudiziaria e le traversie umane di Massimo Carlotto iniziarono il 20 Gennaio 1976, quando a Padova scoprì un delitto di cui fu accusato (era un giovane di Lotta Continua; il mistero del delitto, come si ricava dai dati in appendice al libro, non è ancora stato risolto; Carlotto ha protestato ossessivamente la sua innocenza, sostenuto da molti, e dall'assenza di prove). Si concluse il 7 Aprile del 1993, quando il presidente della repubblica gli concesse la grazia. In mezzo, ci stanno quasi vent'anni, e passa una gioventù. Oggi Carlotto rievoca la sua vicenda in un libro-IL FUGGIASCO - il cui scopo non è quello di "plaidoyer pour soi-meme", ma semplicemente di raccontare, di liberare nel racconto un incubo lungo, una insicurezza che ha avuto più poli e scelte, sintomi, effetti. Tra Europa e America latina, tra la bulimia e l'avventura, ma in sostanza una specie di terra di nessuno, che è quella della latitanza. Vadano prese solo in parte per buone le dichiarazioni di intenti dell'autore, a inizio del libro: "Della latitanza si è detto e scritto pochissimo, e quel poco riguarda per lo più gli ambienti del crimine organizzato. Ovviamente organizzato anche per la fuga dei suoi accoliti. Queste note invece vogliono descrivere la vita, i comportamenti e la quotidianità di chi latitante lo è diventato per caso. Un particolare tipo di fuggiasco che non è assolutamente pericoloso e pensa solo a sopravvivere e a conservare la propria libertà, giorno dopo giorno".
Colpisce, intanto, che Carlotto dimentichi, tra le forme di latitanza, la latitanza politica- che pure compare negli incontri del libro molto spesso, mentre compare ben poco quella della criminalità detta comune. Forse è per un effetto di contiguità, e tutto sommato di forte somiglianza con la sua, che non è immediatamente politica, ma forse è per una volontà di distinguersene, di affermare la differenza del proprio caso anche rispetto ai politici, alla peculiare nevrosi del latitantismo politico italiano da anni Settanta-Ottanta e, diciamolo, al sospetto in esso di un gioco assurdo e distruttore, nelle cause e nelle conseguenze, un gioco cui sarebbe ben ora di mettere un termine.
Quello che Carlotto narra è dunque un esilio particolare, privo delle connotazioni dell'esilio politico, (tra esaltazione e disperazione, in qualche modo) e del latitantismo criminale (efficiente e protetto). Nell'esilio politico il sostegno umano è forte, e si creano solidarietà di cui Carlotto ha usufruito, nelle cui reti si è coinvolto;la diversità del suo caso l'avrebbe altrimenti consegnato alla più nera solitudine. Ma la solidarietà di una comunità scombinata - disperata, divisa da opzioni proprio politiche diverse oltre che da diverse esperienze, storie, origini di classe, morali, speranze, prospettive- non basta. Dei rischi evidenti di questa "comunità", Carlotto vede benissimo l'essenza, per esempio,a Parigi: "La comunità degli esuli aveva da tempo compreso la portata delle devastazioni psico-fisiche prodotte dall'esilio, dalla tortura e dal carcere. Non superare la barriera sottilissima che divide il disagio psicologico dalla patologia vera e propria era un problema generalizzato in quell'ambiente. La comunità sudamericana in particolare, era falcidiata dai suicidi e dall'alcolismo ".
Per sua frotuna, egli ha qualche risorsa e speranza in più, non viene da un paese di dittatura, non ha subito l'oltraggio della tortura. La sua vicenda ha avuto spazi meno ristretti, pesi meno gravosi, anche se egli ha condiviso una condizione e, per l'appunto, una nevrosi. E' nel girovagare, nell'incertezza degli incontri e degli ambienti che gli si presentano, non preventivabili e iscrivibili nella routine dell'esperienza e nel solco delle abitudini, che sta la caratteristica principale di questa vicenda, e del modo di rievocarla. E allora, tra Parigi e Città del Messico, tra ricchi e poveri, tra ombre protettive o minacciose, tra gente di ogni tipo più varia di quanto mai il giovane Carlotto avrebbe potuto pensare di poter conoscere- la storia che ci si racconta per ampi flash e tra ironia e paura, tra difesa e abbandono, è alla fine una storia di formazione per strade molto contorte.
Il senso del rievocare non sta nel documentare ma nel tirare le somme, nel far luce a se stesso, nel collocare accadimenti e sentimenti, nel voler ridare loro un filo e una logica. Si scrive anche per fare i conti con sé, con la propria storia; tanto più necessariamente quando più essa è stata o ci è sembrata eccezionale, diversa. La "memoria" di Carlotto ci offre così, con molto pudore, un autoritratto: tra sballottamento, sprofondamento (fino all'estremo tentativo del suicidio) e rinascita, e sotto il segno del caso più che sotto ogni altro segno. E ci offre ritratti a volontà, situazioni amare, buffe, dolorose, tragiche, paurose, banali. Alle situazioni bisogna, dapprima, adeguare il proprio di ritratto: e camuffarsi, farsi accettare e facendosi credere altro da ciò che si è. Forse divertente a dirsi ma difficile a farsi. Alle situazioni bisogna reagire, e dapprima lo si fa con il pregiudizio (vedi le belle pagine sul Chiapas, sullo Yucatan), poi acquistando con fatica una disponibilità. Alla precarietà e alla minaccia bisogna adattarsi, minuto dopo minuto, e non dimenticare mai, minuto dopo minuto. E alla solitudine si reagisce con la ricerca di affetto (gli amori: difficili, transitori, faticosi, nella diversità, nel chiaroscuro
) o di consolazioni primarie e regressive (il cibo, per sentirsi pieno, piantato, per riempire i mille vuoti, tutti i bisogni non coperti
). Episodi su episodi si accavallano dentro molte e disperate esperienze. Alla fine c'è l'autoritratto, molto sfumato, non ancora in piena luce (e chissà se mai Carlotto riuscirà a ri-definirsi con piena soddisfazione); e c'è l'ambiente, raccontato con vivacità e misura, in capitoli assai densi, ora coloriti e ora struggenti.
Trattandosi della memoria di un "fuggiasco", tutto è questo è - va da sé - in movimento, e il libro va di corsa, mentre il protagonista fugge, cerca tana e quiete e ciò facendo senza saperlo, si cerca. Un mondo a parte eppure ben presente, vario, spesso estremo; un giovane che nell'insicurezza sembra ansimare, ora affascinato e curioso e ora spaventato, senza identità, senza radici. Non è, questa storia, simile anche a tante di emigrazione? Al destino che si impone sempre più evidente a noi tutti? In modi non estremi, certo, ma con confronti non dissimili, con attraversamenti di nevrosi che hanno altri aspetti e altre norme, ma che tuttavia ci pongono e porranno tutti di fronte all'insicurezza di dover essere molto presto o già adesso, nel mondo, per scelta o per obbligo, cittadini senza frontiere e, per lungo tempo, senza quiete.