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Ma quant'è strana la normalità

Autore: Ilaria Zaffino
Testata: La Repubblica - Robinson
Data: 26 agosto 2018

Cosa vuol dire essere "normali"? La stranezza è davvero una nuova normalità? È la domanda che ci accompagna per le quasi duecento pagine del nuovo romanzo di Murata Sayaka (è il decimo, ma il primo tradotto negli Stati Uniti e ora anche in Italia), giovane scrittrice giapponese che a sentire l'ex direttore di Granta, John Freeman, "tutti dovremmo correre a leggere". Con ironia e una prosa fresca, eppure brillante, che a tratti un po' ricorda la Banana Yoshimoto di Kitchen, l'autrice attinge a piene mani dall'attualità e racconta romanzandolo un fenomeno molto sentito in Giappone come il calo di natalità e di matrimoni, ma anche di desiderio sessuale nelle giovani generazioni. La protagonista, Keiko, è una donna di trentasei anni, single, vive sola in un minuscolo monolocale, non ha mai avuto una relazione e da diciotto anni lavora part time, senza aspirare a niente di meglio, come commessa in un konbini, caratteristico convenience store giapponese aperto ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. Per gli altri, è una persona stravagante, perché in una società conformista sfida il pensiero convenzionale, ma lei non avverte nessun disagio. Anzi, solo in "quella scatola di vetro trasparente, dove la vita non si ferma neanche per un istante, le luci sempre sparate a mille", solo "all'interno di quella specie di acquario freddo e asettico" sente di poter funzionare come persona "normale". Sarà l'arrivo di un collega che alle regole de konbini non vuole sottostare e che - nei rapporti sul lavoro tanto quanto in quelli tra uomini e donne - ha una mentalità rimasta ferma all'età della pietra a dare una svolta, grottesca, alla sua vita.

Vincitrice del più prestigioso premio letterario giapponese, un milione di copie vendute, l'autrice ci consegna una storia - che è un po' anche la sua, essendo lei stessa commessa in un konbini - che oscilla tra una "triste fantasticheria postcapitalista", come il romanzo è stato definito dal New Yorker, e una critica, feroce e divertita, alla società giapponese.