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Scrivere allunga la vita. Fino a 400 anni

Autore: Cristina Taglietti
Testata: Corriere della Sera - la Lettura
Data: 2 settembre 2018

«Il tempo che passa? Credo che chiunque ne sia un po' preoccupato. Tutta l'industria della bellezza, la cosmetica si basa sulla paura di invecchiare. Ma allo stesso tempo, essendo stato depresso quando ero più giovane, sono grato del tempo che passa. Non sapevo se, a 43 anni, sarei stato ancora vivo. E invece eccomi qua». Eccolo qua Matt Haig, scrittore inglese, che a Mantova sarà tra i protagonisti più attesi con il suo nuovo romanzo, Come fermare il tempo, appena tradotto in italiano da Silvia Castoldi per e/o. Un libro che in Gran Bretagna è stato più di un anno ai vertici della classifica dei bestseller con oltre 300mila copie vendute.
Haig è uno scrittore brillante, la sua penna è leggera, lo stile fluido e pieno di riferimenti colti ma non pedanti, sia quando si mette nei panni di un cane (Il patto dei Labrador), sia quando, come nel Club dei padri estinti, si inventa un Amleto undicenne che si trova ad affrontare i fantasmi di famiglia, o quando racconta l'anima vampiresca de La bizzarra famiglia Radley che cerca vanamente di mimetizzarsi tra le normali famiglie borghesi. O ancora quando fa in modo che un alieno si impossessi del corpo di un professore di Cambridge nel divertentissimo Gli umani. Ma anche quando mette nero su bianco la lunga malattia che l'ha afflitto all'età di 24 anni nel memoir Ragioni per continuare a vivere. La vera storia della mia depressione e di come ne sono uscito, pubblicato da Ponte alle Grazie nel 2015. Il disturbo ha condizionato tutta la sua vita e la sua scrittura e pure come Come fermare il tempo – dove si racconta la vicenda di Tom, un insegnante di storia che dimostra quarant'anni ma in realtà ne ha più di 400 – arriva, in ultima analisi, da lì. «Penso moltissimo allo scorrere del tempo. E dipende sicuramente anche dalla mia esperienza di malattia mentale. Quando ero più giovane – dice a "la Lettura" – tre anni mi sembravano tre secoli».
Si potrebbe pensare che guardare al passato sia più di conforto che guardare al futuro: ciò che arriva è un'incognita che mette paura. «In realtà – continua Haig – non saprei dire. Credo che non ci sia niente di più penoso, o almeno di più amaro, di una memoria felice che riguarda qualcuno con cui non la puoi condividere». E anche di questo tratta il romanzo di Haig. Dall'Inghilterra elisabettiana alla Parigi dell'età del jazz, da New York ai Mari del Sud, Tom ha visto tutto e può amare quello che qualunque essere umano può amare: «Il cibo, la musica, lo champagne, i rari pomeriggi soleggiati di ottobre, lo spettacolo delle cascate e l'odore dei vecchi libri». Continuando a cambiare la sua identità, può beffare il suo passato e riuscire a rimanere in vita. Tom può fare tutto,tranne innamorarsi. La sua condizione infatti lo pone a una distanza siderale dal resto dell'umanità e lo condanna a vedere quelli che ama invecchiare e morire. Come fermare il tempo è un romanzo difficile da definire: «Credo sia molte cose e nessuna in particolare. È un romanzo storico – spiega lo scrittore – perché in parte è ambientato nel passato ma è anche molto contemporaneo. È fantastico, un po' fantascientifico, romance e persino thriller. Insomma, lo ammetto: sono avido».
Un intreccio perfetto per l'adattamento cinematografico che si è assicurato Benedict Cumberbatch, che oltre a essere il produttore sarà il protagonista. Nel libro Haig costruisce uno strano universo parallelo dove tutti sono legati per sempre, dissemina il racconto di situazioni divertenti e battute brillanti usando un armamentario variegato che comprende anche Shakespeare, da sempre il suo punto di riferimento. «Il Bardo è diventato più un simbolo che un uomo. Un mito senza dubbio. Io però ho sempre pensato che fosse uno spassoso esercizio di immaginazione pensarlo come un essere umano uguale agli altri. E devo dire che il divertimento è lo spirito principale di questo libro». A un certo punto compare anche Francis Scott Fitzgerald: «È estremamente rappresentativo di un certo periodo che mi interessava inserire nel romanzo, l'età del jazz. È stato quasi naturale farlo comparire tra le pagine. E poi è uno scrittore che amo molto, insieme a Graham Greene, Italo Calvino, Emily Dickinson, Carl Sagan, Nicholson Baker».

In Come fermare il tempo c'è anche, in controluce, il tema della follia e dell'evoluzione dell'atteggiamento della società verso questo problema, a partire dalla caccia alle streghe. «Ho letto Michel Foucault e la sua idea che le persone che sono considerate "pazze" minaccino la società e debbano essere nascoste ha influenzato il mio modo di pensare». Lui la sua personale esperienza di depresso l'ha raccontata apertamente ed è diventata un bestseller. «Non me l'aspettavo – dice –. Era nato come un processo parallelo, doveva essere un libretto. Ha avuto successo in modo molto naturale, spontaneo, e questo è stato bello». Il motivo? «Non saprei, forse è arrivato nel momento giusto, quando la gente era pronta a parlare della malattia mentale in un modo più aperto». Grazie a quel libro Haig è ormai un punto di riferimento per chi soffre di depressione. Persone che, spesso anche durante le presentazioni dei libri, chiedono consigli e supporto. Una responsabilità inattesa. «Contro la quale per un po' ho lottato. Io non sono un medico. Dover parlare direttamente con molte persone vulnerabili mi preoccupava. Ora l'ho assorbito e mi pare di sentirmi più a mio agio nel ruolo». Scrivere, per Haig, è stato sempre una parte della cura. «Sì, è terapeutico. Quando strutturi un romanzo hai il controllo su ciò che stai creando e questo può essere di grande conforto se ti senti fuori controllo nella vita reale. Scrivere di esperienze dolorose, come ho fatto in Ragioni per continuare a vivere, poi serve per esternare qualcosa di molto profondo. Leggere permette di capire e di essere capito».

Forse per questo i protagonisti dei libri di Haig sono quasi sempre outsider che hanno sul mondo uno sguardo non convenzionale: un cane, un alieno, vampiri, un uomo vecchio 400 anni. La normalità, però, non è nemmeno un'aspirazione perché «non c'è niente di normale», dice. «Ma penso che ci sia un senso di appartenenza. E, per qualche ragione, ho sempre sentito di non possedere quel senso. Però c'è una libertà in questo. Se non appartieni a nessun luogo, senti di poter andare ovunque. Fisicamente o mentalmente o creativamente. Penso che non si debba aspirare tanto alla normalità, quanto alla capacità di essere semplicemente grati di esistere, di essere felici in uno stato neutro di esistenza. Non bisogna essere sempre impegnati, bramosi di fare, intraprendenti. A volte basta soltanto essere felici osservatori di questa cosa che chiamiamo vita».