Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Scrivere e sparare

Autore: Carlo Mazza Galanti
Testata: Il Tascabile
Data: 21 settembre 2018
URL: https://www.iltascabile.com/letterature/scrivere-sparare/

eggere (buoni) romanzi ci costringe a infilarci nei panni degli assenti: a sentire, soffrire, gioire, con loro. Mathias Énard ha molto lavorato in questa direzione, sulla focalizzazione narrativa e sullo sforzo quasi “telepatico” di espansione della coscienza attraverso l’immaginazione letteraria ha costruito alcuni dei romanzi più convincenti della letteratura francese di questi ultimi anni. La sua volontà di sfondare confini mentali e abitudini percettive si è tradotta in una doppia direzione, più culturale da una parte, e psicologica-esistenziale dall’altra. Lo sconfinamento geografico verso un sostrato culturale più profondo e vasto di quello fornito dalle narrazioni nazionaliste o da altri surrogati identitari ha prodotto libri che qualcuno potrebbe definire di viaggio, romanzi nomadici e cosmopoliti come Bussola, Zona, L’alcol e la nostalgia.

Dall’altro lato, l’incursione nella testa e nel corpo (perchè si legge sempre con il corpo, come ricordava Roland Barthes) di gente mediamente assai diversa e lontana dal pubblico del romanziere francese è all’origine di molte sue fatiche: nel già citato Zona il protagonista è una loschissima figura di spia al servizio di oscuri interessi internazionali, in Via dei ladri è un giovane marocchino in fuga dal suo paese, ma il romanzo che da questo punto di vista si spinge più in là, quello dove il gioco dell’immedesimazione si fa più rischioso e ambizioso è probabilmente il suo primo libro: La perfezione del tiro, oggi pubblicato in Italia da E/O nella traduzione di Yasmina Mélaouah.

Folgorante rivelazione, a suo tempo (2003), di un autore appena trentenne ma già dotato del talento e della tecnica di un vero scrittore, La perfezione del tiro è il racconto in prima persona di un cecchino assoldato in una guerra collocabile in un’area genericamente arabo-mediterranea. Il carattere indefinito del conflitto in questione non raggiunge la rarefazione allegorica di certe narrazioni novecentesche: Ènard si mantiene a un livello di astrazione “medio”, ciò che perde in forza allegorica lo guadagna a una dimensione più immediatamente politica e, forse per il modo in cui la violenza delle armi intreccia una storia di prevaricazione sessuale, più che la trilogia di Ágota Kristóf o certi libri di Coetzee (o gli Appunti per una storia di guerra di Gipi), La perfezione del tiro mi ha ricordato un romanzo italiano molto bello e oggi poco citato come Tempo di uccidere di Flaiano.

Per quanto sia forse il libro meno erudito e intellettuale di Énard (basterebbe a dimostrarlo l’immersività quasi cinematografica delle scene di guerra), La perfezione del tiro è un breve romanzo estremamente denso e meditato. La violenza bellica e i meccanismi adattivi di chi la vive sono al centro del racconto: a colpire è il modo in cui il narratore si rivela letteralmente assuefatto al contesto di guerra, non diversamente da come chiunque si adatti alla propria routina in tempo di pace. Non a caso il cecchino parla continuamente della guerra in termini professionali, come di un semplice mestiere. Essendo il romanzo raccontato dal punto di vista di questa gelida normalizzazione la violenza rimane per la maggior parte del tempo fuori campo, esplode oltre lo spazio di coscienza del combattente: se la vediamo è perché in qualche modo rifiutiamo di fare corpo con la voce narrante. Questo passo a lato del lettore non fa altro che aumentare lo straniamento che suscita quella assurda normalità, le brutalità di cui si fa alibi, e il fatto di avere fino a quel momento solidarizzato con la parola di un killer spietato; la guerra è una deformazione patologica della coscienza morale e La perfezione del tiro ci offre un campione molto credibile e dettagliato di questa umanissima aberrazione capace di generare codici, abitudini, pregiudizi, esattamente come la “vita normale”.

Il cecchino è un voyeur: è l’incarnazione dello stretto rapporto esistente tra la suddetta rimozione/normalizzazione della violenza e la messa a distanza dell’immagine. Appostato sui tetti delle palazzine abbandonate di una città assediata il tiratore diventa latore di una morte a distanza che colpisce lontano, altrove, in un punto preciso ma remoto dello spazio, come il segno di una fatalità. È forse questo l’aspetto più affascinante del libro: il modo in cui il narratore unisce a un delirio d’onnipotenza, favorito dalla sua posizione di “superiorità”, quella che si potrebbe definire una riduzione ottica del mondo che ha qualcosa da dire, credo, su come l’umanità da qualche decennio a questa parte si è abituata a consumare immagini di violenza.

Sono molte le pagine che Énard dedica alle notazioni tecniche-visive del combattente, al modo in cui si immerge nel mirino telescopico, al mondo che si configura ai suoi occhi come una lucida superficie bidimensionale, un reticolo di possibili bersagli. La disumanizzazione tecnica delle vittime è esaltata dalla ricerca del colpo “perfetto”: il tentativo delirante di coniugare balistica, igiene visiva e una sorta di disciplina interiore che sembra parodiare macabramente lo zen e il tiro con l’arco e che si prolunga in contemplazioni e descrizioni incantate e stranianti:

Sparare è prima di tutto una disciplina. Devi controllarti, comprimerti, raccoglierti, concentrarti nel bersaglio fino a sparire nel mirino per poi liberarti, aprirti e lasciarti scorrere come una goccia d’acqua. Devi creare una relazione fra te e le cose, un legame diretto che chiamiamo traiettoria; devi immaginarlo, seguirlo come un tragitto. Devi astrarti dal mondo, ritirarti pian piano nell’angolino irreale della mira fino a perderti nei riflessi infiniti delle lenti. Devi dimenticare la realtà del bersaglio, immaginarla come il punto di approdo, il traguardo di una corsa da vincere. Il respiro immobile com’è immobile l’arma contro la spalla, né troppo lasca, né troppo serrata, devi piegare il dito sul grilletto in un gesto che non è nemmeno un gesto, leggerissimo, senza alcuna forza, trasmettere soltanto l’energia necessaria perché il grilletto arretri senza spostare l’arma, senza far crollare il castello fragile che hai appena costruito. Devi aspettare la detonazione, accompagnarla, non lasciarti cogliere di sorpresa e pazientare ancora un secondo per verificare, nel mirino, il risultato del tiro.

Un altro livello di lettura è suggerito dalle interconnessioni presenti nel libro tra la violenza militare e un’economia pulsionale fortemente “fallocentrica”. Se la guerra la fanno gli uomini, quella bellica è una violenza maschile: il pur vago inquadramento culturale del romanzo, ovvero quello di una società ancora portatrice di una visibile impronta patriarcale, aiuta a mettere a fuoco questo tema. Il cecchino si invaghisce di una ragazza che accudisce la madre malata: il desiderio degenera rapidamente, incapace di trovare un equilibrio tra l’eroismo machista imposto dalla milizia e un tormentoso e infantile bisogno di affetto.

L’ambiguità delle attenzioni del narratore nei confronti della giovane donna, le denegate interazioni omosessuali con un compagno d’armi, il modo in cui l’amore dell’uomo si vena di minacce e ricatti: in questa cornice la guerra diventa l’apoteosi di uno squilibrio sessuale che continua a strutturare nel profondo la psicologia maschile del protagonista. “Il desiderio di un corpo, di un viso, di una bocca è solo la parte tangibile dell’oscurità che ci abita” riconosce a un certo punto il soldato. La performance militare è la manifestazione estrema di un oscuro furore erotico, l’uomo col fucile è un feticista e un voyeurista, condannato alla violenza dalla propria debolezza: insomma un mostro. Un mostro tuttavia di cui Énard fornisce un ritratto inconcepibilmente empatico.