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La scrittrice geniale

Autore: Angelo Carotenuto
Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 12 ottobre 2018

Amiche mie, siete libere

Che succede quando una grande storia passa dalla pagina scritta a un'immagine sullo schermo? «È come se si spogliasse, rimanendo nuda» dice Elena Ferrante. Aspettando che la serie tratta dal suo romanzo più famoso arrivi in televisione, noi l'abbiamo intervistata. Inevitabilmente via e-mail.

Dopo dieci milioni di copie vendute in 40 Paesi al mondo proteggendo il mistero sull'identità di Elena Ferrante, sulla copertina della nuova edizione Lila e Lenù hanno il volto di due attrici bambine. È il sublime paradosso con cui L'amica geniale entra in una nuova dimensione. La tetralogia è diventata una serie tv in otto episodi, i primi due in anteprima all'ultima Mostra di Venezia e al cinema per tre giorni all'inizio di ottobre, prima di arrivare a fine novembre su Raiuno, RaiPlay e Timvision. Un casting di otto mesi fra novemila partecipanti ha individuato le protagoniste nell'età dell'infanzia in Ludovica N asti ed Elisa Del Genio, debuttanti, due dodicenni della provincia napoletana. A distanza, nell'ombra in cui ha deciso di vivere la sua condizione letteraria, Elena Ferrante ha seguito la scelta delle attrici e la scrittura della sceneggiatura, a cura di Laura Paolucci, Francesco Piccolo e Saverio Costanzo, che del film per Hbo-Rai Fiction e Timvision è pure il regista, altra scelta suggerita dalla scrittrice. La voce narrante fuori campo è di Alba Rohrwacher. È una dimensione nuova per la stessa Ferrante, che via mail racconta al Venerdì il suo incontro con il cinema.

Quando nel 1994 Mario Martone preparava la sceneggiatura dall'Amore Molesto, lei scrisse: «Temo di vedere ciò che ho veramente raccontato e disgustarmene; o scoprirne invece la debolezza; o anche semplicemente accorgermi di ciò che manca». Anche stavolta ha temuto di vivere le stesse sensazioni?

«Sì. Ma oggi è una condizione a cui mi espongo consapevolmente, con ansia, certo, ma anche con curiosità. Una volta, quando si parlava di un film nato da un libro, si usava dire: "riduzione cinematografica". Non so se questa formula è ancora diffusa, probabilmente no, dà un'idea {sbagliata) di prodotto minore. Ma di quella espressione ciò che ancora mi interessa è l'idea di movimento: grazie a un certo tipo di lettura specialistica (quella degli sceneggiatori, quella del regista) il romanzo passa dalla pagina allo schermo e nel corso di questo movimento perde la veste letteraria, si denuda. È questa nudità che mi confonde e insieme mi incuriosisce. La lettura di chi fa film è l'unica, forse, che ha l'obbligo di "spogliare" il racconto e prendergli le misure per dargli un abito nuovo. Ma il racconto letterario, privato della sua specificità, è come lo scheletro sotto la faccia: spaventa, forse addirittura umilia chi l'ha scritto. Viene da chiedersi: "Questo è il mio libro? Dov'è ciò che mi pareva di aver fatto?"».

C'è stato un carteggio analogo con Saverio Costanzo? Leggeremo prima o poi anche questo scambio?

«Non so, bisogna aspettare la fine di questa esperienza. Lo scambio con Martone fu intenso ma di poche pagine, mentre quello con Costanzo, trattandosi di una serie, è ben più fitto e con lunghe note relative alle varie stesure di soggetti e sceneggiature. Ne verrebbe fuori un volume, e non so se di qualche interesse. Alla fin fine si tratta della traccia scritta di come trama e personaggi e ambienti e la stessa scansione del tempo abbandonano il libro e vanno verso uno dei possibili film che un testo a carattere narrativo può suggerire».

Per lei inizia una nuova esperienza o si è trattato di un'eccezione? Siamo a una svolta creativa?

«No, no, escludo categoricamente di lavorare in futuro per il cinema o per la televisione. E comunque non si è trattato di un lavoro vero e proprio di sceneggiatura, non ne avrei avuta la competenza.Ho discusso piuttosto i testi scritti da Costanzo e dai suoi collaboratori intervenendo con proposte mie lì dove mi sembrava necessario. Ho lavorato insomma collocandomi tra l'idea del libro che mi pare di aver scritto e l'idea di film che gli sceneggiatori stavano mettendo a punto. Mi interessava quella postazione, con tutte le difficoltà e le mediazioni che ne sarebbero derivate».

Sta scrivendo allora un nuovo romanzo?

«Scrivo sempre, è il mio modo di ingannare il tempo. Difficile è capire se ciò che scrivo va pubblicato. E comunque di pubblicare non ho mai sentito l'urgenza».

Tra le pagine dei suoi libri il dialetto non è mai esplicitato. La serie tv lo rende ascoltabile. Che effetto le fa sentire in napoletano frasi che aveva solo immaginato?

«Un effetto sgradevole, specialmente nelle esplosioni di violenza, ed è un fatto positivo. La sgradevolezza, così come la percepisce Elena man mano che con estrema fatica si accultura e si stacca dal rione, nel libro, pur essendo centrale, è più che altro una cadenza: ho escluso di mimare un napoletano duro. Nel film invece se ne deve dare necessariamente il suono. Ho lavorato prima su sceneggiature in italiano, poi su sceneggiature in dialetto».

Quanto è differente questo suo napoletano da quello che l'Italia conosce: le canzoni classiche, il dialetto del teatro borghese di Eduardo, la Gatta Cenerentola, la neo-lingua di Gomorra?

«Ho sentito da bambina il dialetto come una colpa. La scuola ne puniva duramente l'uso e se volevi essere come le eroine dei romanzi il dialetto era un ostacolo insormontabile. Non mi piaceva il napoletano del mio ambiente e ancora meno mi piaceva il napoletano italianizzato o l'italiano napoletanizzato che parlavano i ceti mediamente colti. Sono cresciuta nell'idea che la stessa cadenza dialettale mi rendeva in qualche modo indegna e che quindi o sprofondavo nel dialetto come per ripicca "sono così e posso essere anche peggio di così" o dovevo cancellarmelo in profondità, essere un'altra. Io vorrei che, lungo tutto il racconto televisivo, si sentisse costantemente il napoletano del rione questo napoletano non toccato dalla scuola e dai media, non addolcito dal sentimentalismo piccoloborghese, per ottenere di conseguenza lo sforzo che fa soprattutto Elena, prima per adeguarlo all'italonapoletano dei professori, poi per cancellarlo da se stessa quando va a Pisa».

Domenico Rea teorizzò l'esistenza di due Napoli, con una spaccatura tra classi egemoni e ceti subalterni della città, borghesi e lazzari, una città con due classi ma senza un popolo. Quanto ha guardato a questa frattura per la costruzione della sua opera? Esiste ancora? E cosa c'è, oggi, se esiste, che unisce le due Napoli?

«Da quel che vedo e sento quando sono in città, la frattura dura, anzi si allarga, è un taglio netto. Si potrebbero registrare le voci di tutta Napoli, area per area, con il loro intreccio dalla periferia al centro, e costruire una mappa puramente sonora delle differenze economiche, sociali e culturali. La scuola ha perso la sua battaglia omologante, e per molti aspetti l'hanno persa anche i vecchi e i nuovi media. Unico punto unificante è il legame violento, irrazionale, con la città, legame che è robusto in chiunque vi sia nato, anche in chi l'ha abbandonata con sofferenza al suo destino».

Come ha partecipato al casting delle attrici bambine? Cosa prova al pensiero del disvelamento del volto dei suoi personaggi?

«Non è una cosa che mi allarma. Che trama, ambienti, personaggi abbandonino la e circolino su altri media (audiolibri, teatro, cinema, televisione) va bene. Naturalmente mi riservo di avere una mia opinione sulla buona riuscita dei lavori che muovono dai miei libri. La piccola Lila di Costanzo, per esempio, mi sembra perfetta, e la piccola Elena ha momenti che fondano con efficacia la donna che diventerà. Quanto al casting, le rare volte che mi è stato chiesto di mettere bocca ho solo complicato le cose. Di fatto, se avessi dovuto scegliere io le due attrici, non ne sarei mai venuta fuori. In genere le immagini che ho in mente mentre scrivo sono cangianti, a volte iperdefinite, a volte sfocate, e quindi sarei corsa dietro alle incarnazioni più varie. Perciò, a mio parere, è un bene che chi scrive un libro non eserciti una sorta di diritto di veto. Il regista deve costruire la sua opera, allestire il suo spettacolo nella massima libertà. Comunque si mettano le cose, i libri non hanno bisogno di tutela: sono lì, definitivamente fissati, pazienti e invulnerabili».

Come è nata la scelta di avere una voce narrante fuori campo? È sua?

«No, in genere non amo la voce fuori campo. Ma almeno nel primo episodio, quando i segmenti narrativi dell'infanzia non possono ancora saldarsi, mi è sembrata necessaria. E comunque Elena che scrive non è solo voce off; è parte indispensabile della storia».

Lei si è conquistata uno spazio di libertà creativa assoluta, mentre la scrittura per il cinema obbliga al confronto costante. Un romanzo può essere finanche tradito da una sceneggiatura. Come ha gestito questa anomalia?

«Non mi preoccupa il tradimento dei miei libri. Anzi mi è successo di chiedere a Costanzo di inventare di più, di liberare la sua immaginazione. Il problema quindi non è il tradimento. Il problema è che sono troppo abituata ad avere il governo assoluto di una storia, essa deve nascere e compiersi tutta nella mia scrittura. Scrivere per il cinema, invece, ha un'autonomia relativa. Una sceneggiatura mi pare funziona come un necessario, utilissimo libretto di istruzioni: questo è l'ordine deglii eventi, questi sono gli ambienti che servono, questi i personaggi per cui occorreranno gli attori, queste le battute a cui bisogna dare le voci. Gran parte degli effetti verbali che vivificano la pagina devono sparire per essere sostituiti con gli effetti del linguaggio cinematografico. Il prodotto finito è infatti il film, che non si fa alla scrivania ma sul set, dove chi lavora con la scrittura giustamente non ha peso».

È attratta dal lavoro di regia? Esiste una esperienza creativa che potrebbe invogliarla a uscire dalla sola pagina scritta?

«Comporre musica, ma disgraziatamente non so suonare nessuno strumento, sono stonata e non riesco nemmeno a fischiare. Quanto ai mestieri del cinema, mi affascinano ma non ho nessuna competenza. Capisco gli scrittori che sono attratti dalle serie televisive e tuttavia credo che scriverle non basti. Per ottenere un risultato che ci soddisfi, bisognerebbe impadronirsi del set. Apprezzo quindi chi si impegna seriamente in questa direzione e aspira a dominare il racconto cinematografico tanto quanto quello letterario. A me, per farlo, occorrerebbe un'altra vita».

Qual è il visivo a cui ha fatto ricorso da romanziera? Quali film l'hanno influenzata nella creazione del rione di Lenù e Lila? Quale film le pare che abbia raccontato meglio Napoli? Cosa preferisce guardare al cinema e in televisione?

«Sono una spettatrice assidua e disinvolta, raramente arriccio il naso e mi tiro indietro. Non voglio dire che mi piace tutto, voglio dire che per formazione trovo da riflettere o da imparare quasi sempre, spesso a prescindere dalla qualità certificata. Il cinema quindi ha condizionato e condiziona, nel bene e nel male, la mia immaginazione. Quanto ai film su Napoli, che dirle? È stato importante per me, da ragazzina, Le mani sulla città di Rosi. E ho amato molto un film di pochi anni fa, L'intervallo di Leonardo Di Costanzo».

Ogni volta le sia stato chiesto di indicare modelli per la sua scrittura, lei ha sempre e solo citato autrici femminili... Ha chiesto a Saverio Costanzo di proteggere questa prospettiva? Come crede che una donna alla regia avrebbe cambiato questo lavoro?

«Francamente non lo so. I miei libri si sforzano di dare una forma a ciò che ho imparato muovendomi nel mondo. Forse una donna-regista avrebbe accolto il mio sguardo potenziandolo, e mi sarebbe piaciuto molto che accadesse. O forse, perché no, col suo lavoro lo avrebbe criticato e depotenziato, ritenendolo, che so, troppo schematico quando si posa sui personaggi maschili, o troppo incline a raccontare le contraddizioni nei rapporti tra donne a discapito di una sorellanza più edificante. E questo - devo ammettere - non mi sarebbe piaciuto, ma comunque non avrei messo bocca nel suo lavoro, perché credo che le donne-artiste abbiano la necessità di raccontare ancor più degli uomini in perfetta autonomia, con liberissima inventiva, ciò che sanno di questo mondo, violando quando e come vogliono lo stesso quadro di insieme che ci siamo date con una ormai vasta produzione di pensiero e d'arte. Per capirci, io non avrei mai detto a un'altra donna: tu devi fare un film chiuso dentro la gabbia del mio libro. Poiché do per scontato che una donna sappia del nostro sesso quanto ne so io e forse di più, avrei lasciato che quella gabbia la forzasse e storpiasse secondo i suoi bisogni. Mi auguro invece che un uomo, col suo immaginario di lunghissima e solida tradizione, se ha scelto in assoluta libertà di fare un film a partire dal mio libro, adotti il mio sguardo e lo rispetti».

Cosa sa dell'infanzia di oggi a Napoli? Conosce il fenomeno delle paranze?

«No, so solo ciò che leggo nelle cronache e nei libri di Saviano. Ma per conoscere davvero la Napoli odierna, come del resto qualsiasi altra città, non bastano né i giornali, né i libri, né i film: bisogna viverci. E io vado a Napoli molto spesso, ma non ci vivo più, sicché non scriverei mai dell'oggi. Non basta leggere, per scrivere. La scrittura corre sempre il rischio della maniera, se la vita non la obbliga di continuo a sterzate inattese e incoerenti. Sia le vite che le pagine tutte d'un pezzo mi sembrano finte».

Lei ha detto che nelle intenzioni dell'Amica geniale c'è un «dosaggio meticoloso tra stereotipi e smarginatura», Le pare che il film rispetti lo stesso dosaggio?

«No, è una mia scelta e non mi pareva giusto imporla al cinema di Costanzo. Gli stereotipi sono facili da maneggiare quando li usiamo senza sapere che sono stereotipi, ma utilizzarli consapevolmente, e per forzarli, è un gioco d'azzardo. Immagino che Costanzo abbia trovato una sua "forma" che potenzi soprattutto la smarginatura».

La tv porterà un nuovo flusso di popolarità. Non teme che possa riaccendersi l'antica questione della curiosità intorno al suo volto?

«Questo è un vecchio assillo dei media che, visto che lascia le lettrici e i lettori nella sostanza indifferenti, meno male che va scemando. Chi legge i miei libri li legge, ora più di prima, sapendo che ogni mia possibile fisionomia è affidata alla scrittura. È un patto sancito ventisette anni fa e non intendo violarlo».