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Se il divorzio è all'islamica e a Viale Marconi. Amara Lakhous e il suo nuovo romanzo

Autore: Elena Dini
Testata: Minareti.it
Data: 1 ottobre 2010

Una storia raccontata con ironia attraverso i punti di vista dei protagonisti. E le loro lingue e dialetti. Dopo "Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio" arriva nelle librerie "Divorzio all'islamica a Viale Marconi" di Amara Lakhous. 

Quando un libro mi arriva fra le mani, normalmente la prima cosa che faccio è quella di leggere la trama. Ed è stato così che ho fatto quando ho visto sulla scrivania il nuovo libro di Amara Lakhous, "Divorzio all'islamica a Viale Marconi".

Lo scontato passo successivo che puntualmente mi investe è quello di crearmi un'aspettativa generale su come sarà il libro. Ecco, questa volta l'aspettativa è stata delusa. Ma non in negativo. "Divorzio all'islamica a Viale Marconi" non è quello che sembra promettere di essere - una storia di spionaggio che fa un po' pensare ai romanzi di John Grisham - ma quello che penso si possa definire un romanzo d'identità dove sono le persone e non la trama a conquistare il lettore. Dove ogni parola, la lingua in cui viene espressa e le labbra su cui viene posta servono a dipingere un quadro che parla al lettore della nostra società attraverso gli occhi di persone che probabilmente egli non fermerebbe mai per strada.

Il romanzo racconta la storia di Christian un giovane siciliano che parla perfettamente l'arabo tunisino e che viene contattato dai servizi segreti per venire infiltrato in una potenziale cellula di terroristi. Durante la sua indagine sotto copertura, Christian, che ha preso il nome di Issa, viene a contatto con il mondo degli immigrati di Roma e soprattutto con Sofia, una donna di origine egiziana venuta a Roma seguendo il marito anch'egli egiziano. La storia verrà narrata dai punti di vista di questi due protagonisti. Con un finale inatteso.


All'inizio del libro il lettore trova una citazione di Ennio Flaiano "Quanto alla mia ironia, o se vogliamo dire alla mia satira, credo che mi liberi di tutto quello che mi dà fastidio, che mi opprime, che mi offende, che mi mette a disagio nella società". Che ruolo ha avuto l'ironia nella redazione del suo libro?

Quando avevo 19 anni, mi sono iscritto ad Algeri alla facoltà di filosofia perchè volevo capire come era fatto il mondo razionalmente. Dopo la laurea sono rimasto deluso perchè mi sono reso conto che le cose sfuggono alla razionalità. Nella fase di immigrazione/esilio, questa intuizione ha trovato conferma. Viviamo delle situazioni spesso irrazionali e assurde e bisogna cercare un altro modo per raccontare la realtà.
Dopo l'11 settembre ritrovo il terrorismo che avevo lasciato in Algeria con la conseguente paura nei confronti degli immigrati musulmani senza motivi reali. Il romanzo infatti è ambientato nel 2005, quando in Italia si parlava spesso di attentati imminenti e ho cercato di raccontare questa paura attraverso l'ironia. Noi musulmani non siamo molto bravi generalmente nell'autoironia. Ecco perchè quando vengono pubblicate delle vignette sul Profeta c'è la fine del mondo.

In "Divorzio all'islamica a Viale Marconi", sembrano i pensieri dei personaggi e non la trama a giocare il ruolo fondamentale...

Io non sono uno scrittore di gialli, uso la trama solo come sfondo - in questo sono molto sciasciano. L'obiettivo non è trovare il colpevole ma cercare di raccontare una storia. Questo libro nasce dalla mia tesi di dottorato con la professoressa Scarcia Amoretti sugli immigrati musulmani in Italia. Invece di pubblicare un saggio con i dati raccolti, ho pensato di scrivere un romanzo perchè è il mezzo più efficace per avvicinare il grande pubblico. Nel saggio trovi numeri e teorie mentre è importante prendere in considerazione le persone. Le grandi teorie lasciano il tempo che trovano; quando un lettore invece si trova di fronte a temi reali e vita quotidiana è obbligato a prendere una posizione a favore o contro quello che legge.

Gia in "Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio" era evidente l'importanza della lingua nella sua scrittura. Nel suo nuovo romanzo il lettore si trova ancora di più immerso in dialetti e lingue differenti. Il fattore linguistico è secondo lei una caratteristica fondamentale per trasmettere atmosfere e idee?

Assolutamente sì. La letteratura senza la lingua diventa saggistica. Per me è una grande fortuna essere uno scrittore bilingue. In Libano è uscito un mese fa il libro gemello di "Divorzio all'islamica a viale Marconi" con un altro titolo. Sul piano linguistico io cerco di arabizzare l'italiano portando immagini e modi di dire della tradizione araba e di italianizzare l'arabo portando un immaginario italiano per il lettore arabo.

Verso metà del libro, soprattutto quando Sofia parla del suo rapporto con il velo, si comincia a capire che invece di essere un romanzo di spionaggio, "Divorzio all'islamica" è un romanzo d'identità. Qual è il messaggio che vuole trasmettere al lettore?

Che non bisogna mai negare la propria cultura perchè il rapporto con la cultura e la religione di appartenenza è un po' come il rapporto con i genitori. Ovviamente questa fierezza non deve impedire l'autocritica che permette di guardare la propria realtà con occhi critici ma anche costruttivi. Quando ho scritto il romanzo, ho cercato di mettermi nei panni di Sofia. Mi sono posto delle domande che non mi ero mai fatto prima di allora uscendo dalla mia ottica di genere e di cultura. Per esempio, nel libro Sofia si interroga sul paradiso femminile. Io mi sono sempre immaginato il paradiso nell'Islam nell'ottica maschile ma Sofia giustamente si chiede: "cosa andiamo a fare noi donne in paradiso" se l'idea è quella di un paradiso carnale con donne vergini? 
Alle spalle io ho un'esperienza familiare che mi aiuta: ho cinque sorelle  e so cosa vuol dire essere una donna nel mondo musulmano. Se sei uomo è tutto più facile, se sei donna sei discriminata. Anche l'Italia per le donne non è un paese semplice. Basta guardare alla violenza domestica. E allora non è il velo il problema perchè anche le veline in televisione vivono una loro forma di oppressione.

Nel mondo di Sofia i fattori religiosi e culturali si sovrappongono e la cultura sembra avere la meglio. Questa è l'esperienza che ha riscontrato nelle sue ricerche?

Molte cose sono più legate alla cultura che alla religione. Ho notato, per esempio, che l'Islam dei pakistani è in alcune cose più vicino all'Induismo che all'Islam praticato in Nord Africa. La cultura è spesso più forte e complessa della religione, intesa come pratiche.

Con quale idea spera che il lettore chiuda il libro una volta finito?

Io ho sempre creduto nel mio ruolo di mediatore nel comunicare due mondi attraverso la mia doppia identità attuale di algerino e italiano. Il messaggio che voglio trasmettere è quello di compatibilità culturale. Vorrei che il lettore vedesse il pluralismo culturale, religioso e linguistico come una risorsa e non come una minaccia.