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La maternità è un corpo a corpo con il neonato e tata Elsa

Autore: Sergio Pent
Testata: La Stampa - Tuttolibri
Data: 19 gennaio 2019

La maternità è una consapevole, responsabile scelta di vita. Ma la maternità è anche lotta devastante, scontro perenne. Corpo a corpo. Si impara a essere madri imparando qualcosa di nuovo da se stesse, in fondo. Il messaggio del romanzo d'esordio di Silvia Ranfagni, sceneggiatrice e insegnante di scrittura creativa, va letto come il simbolo di una dimensione esistenziale che — anche se assolutamente naturale — rischia di compromettere equilibri fragili, di smuovere istinti anche malsani, nella faticosa accettazione di una diversità che diventa un prolungamento, un'appendice. Un peso, almeno nel caso della protagonista di Corpo a corpo.

Non più di primo pelo, Beatrice porta dentro di sé il frutto del suo azzardo, quello di affidare l'inseminazione alla Human International, franchising di donatori di seme. In carriera ma sostanzialmente irrisolta, Bea cerca forse un nuovo tipo di confronto più che una piena realizzazione di sé. Ma il Corpo - così la donna definisce il figlio nei suoi primi mesi di vita - prevale fin da subito con esigenze essenziali, con gli strilli e le poppate, con quel suo essere comunque un'entità aliena, un qualcosa che chiede ininterrottamente senza dare nulla in cambio, se non fatica, fisico appesantito, notti in bianco, snervanti visite pediatriche. È questo, dunque, essere madri? Scontrarsi ad armi impari con una creatura che assomiglia solo a se stessa e non offre la protezione che forse cercavi per una nuova parentesi di vita?

Mister Cento Euro - senza ricevuta - l'analista a cui si rivolge Bea per trovare conforto e giustificare la propria carenza affettiva di madre estenuata, non riesce - o non vuole - appianare le sensazioni in una dimensione naturale che le eviterebbe le ansie, le paure e i guizzi di odio nei confronti di un figlio arrivato a occupare un posto troppo ingombrante.

Sarà Elsa, la tata eritrea assunta per badare al piccolo Arturo, a rimettere - almeno temporaneamente - in carreggiata gli squilibri di Bea e a farle capire che la maternità è un dono, non un sacrificio senza ricompense. Elsa e i suoi figli lontani, all'estero, Elsa e la dolorosa - ma quasi epica - storia di famiglia, con quel nonno italiano Donato Donnini, bigamo consapevole, sposato a una conterranea ma convivente in tempo di guerra con una sedicenne eritrea che lo rese padre di Vittoria, la madre di Elsa. Quella Vittoria abbandonata senza remore quando l'italica consorte tornò a riprendersi il marito fedifrago per riportarlo a casa. In questo guazzabuglio multietnico Bea capisce qualcosa di figli, amori e abbandoni, mentre Arturo cresce e diventa una cosa diversa da un semplice Corpo che le ha cambiato la vita. C'è confronto, finalmente, c'è qualche vero sorriso, anche se la donna capisce di volere l'esclusiva della sua tardiva e mal accetta maternità solo quando l'affetto di Elsa per il piccolo diventa prevaricazione, con quella scelta clandestina di far battezzare di nascosto il bambino lasciato «impuro» dalla madre atea.

La cacciata di Elsa non cambia la sostanza delle cose, ma l'assenza diventa rimorso e poi rimpianto, mentre Arturo cresce e le estenuanti divergenze tra madre e figlio si evolvono in un dialogo ormai quasi maturo, dove la nostalgia diventa - faticosamente - il lasciapassare per un nuovo e sempre più determinante stralcio di vita. Forse si ritroveranno, Arturo e Beatrice, o forse passeranno la vita a rincorrersi, a studiarsi, a coesistere in un perenne corpo a corpo di attese mai veramente realizzate per entrambi.