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Prima dell'infame mattatoio

Autore: Walter Chiereghin
Testata: Il Ponte Rosso
Data: 7 marzo 2019

Non fu soltanto sterminio: prima delle camere a gas, prima dei carri bestiame, prima di tutto quell’orrore ce ne fu un altro, più sottile e meno percettibile, nella sospensione del tempo, negli sguardi distolti per vergogna, per disgusto di sé, da parte di chi assisteva incredulo all’emarginazione e all’allontanamento di un collega, di un compagno di banco, di un amico, di un vicino di casa. Persone, famiglie intere che entravano, da un giorno all’altro, in una dimensione grigia e opaca di alterità, di allontanamento da diritti che si credeva conquistati irrevocabilmente e per tutti in una società civile, per quanto essa fosse autoritaria e violenta nei confronti di chi le si opponeva. La premessa ai lager è stata questo: un periodo di claudicante incertezza e di progressiva emarginazione e isolamento degli ebrei italiani. L’irruzione, nel linguaggio, del vocabolo “razza” riferito non già alle galline o ai cani, ma a quei cittadini italiani, in molti casi sostenitori del regime fascista anche “ante marcia”, come allora si soleva dire, che nel volgere turbinoso di poche settimane come qualcosa di diverso, di inferiore, di spregevole e di ripugnante. Di nemico.

L’antisemitismo italiano aveva connotazioni più blande di quello centroeuropeo, tuttavia a partire dal 1938, con l’uscita del primo numero del quindicinale La difesa della razza, che precedette di un mese la promulgazione delle leggi razziali, fu dato avvio a una politica nei confronti degli ebrei che sempre più nitidamente si qualificò come persecutoria. Gli arresti e le relative deportazioni in Germania verso i campi di sterminio coprirono tuttavia un intervallo temporale relativamente limitato, a partire dall'inverno del 1944 fino alla primavera dell’anno successivo, il che consentì di limitare il numero degli uccisi a circa seimila persone (se per una strage di tali dimensioni ha senso parlare di limitatezza).

Lia Levi, nel suo più recente romanzo, Questa sera è già domani, narra le vicende di una famiglia genovese, di confessione israelita, che viene colpita dalle leggi razziali. Il figlio Alessandro, bambino-prodigio cui le maestre fanno saltare alcuni anni di scuola e che arriva quindi con largo anticipo al ginnasio, subirà l’espulsione dalla scuola pubblica e proseguirà gli studi, con profitto comprensibilmente calante, in una scuola ebraica organizzata nell'edificio della sinagoga. È soprattutto coi suoi occhi che viene narrata l’incertezza, l’indecisione circa il che fare, l’angosciante senso di accerchiamento del bambino che entrerà nella sua adolescenza con addosso la cappa di piombo di questa precarietà, che condizionerà naturalmente ogni sua attività, ogni sua attività, ogni sua difficoltosa progressione di crescita, tanto in ambito familiare che fuori di casa, nei rapporti con le ragazzine, nella preparazione al Bar Mitzvà, nella scuola. L’avvertimento di una tragedia incombente sovrasta ogni agire del ragazzo come pure di chi gli sta attorno, adulti in primo luogo.

Sembra, fino alle ultime pagine, un libro destinato all’abusato scaffale dei romanzi di formazione, ma la nitidezza della caratterizzazione dei personaggi e della limpida descrizione di stati d’animo dovrebbero farci pensare a quanto in effetti sta alla base di questo libro, che attiene anche alla sfera della memorialistica, riferendosi, nel personaggio principale, alla reale esperienza del marito dell’autrice, Luciano Tas, scrittore e giornalista scomparso nel 2014. L’opera è meritatamente vincitrice della quinta edizione del Premio Strega Giovani.