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Nelle tenebre si può risplendere di un amore inconsumabile

Autore: Alessandra Pigliaru
Testata: Il Manifesto
Data: 16 marzo 2019
URL: https://ilmanifesto.it/nelle-tenebre-si-puo-risplendere-di-un-amore-inconsumabile/

«Ho cercato il tempo del coraggio, di una stanza tutta per me che mi consentisse di scrivere». Sono dei paraggi simbolici inestimabili quelli che segnala Adélaïde Bon, intervistata a proposito del suo primo libro La bambina sulla banchisa (edizioni e/o, pp. 200, euro 16, traduzione di Silvia Turato). Lo ha scritto per tutte le sue sorelle, prosegue, i suoi fratelli, che stanno su quel pezzo di ghiaccio marino. «E perché una bambina su cinque in Europa è vittima di violenza sessuale. L’ho fatto per i parenti, i genitori, gli assistenti, gli agenti di polizia e i magistrati coinvolti nella mia storia e in altre. Per restituire il significato di cosa voglia dire vivere dopo uno stupro; quando una vittima di violenza sessuale viene individuata, riconosciuta, ascoltata e curata correttamente, guarisce». Dopo 23 anni da quel giorno, Adelaïde Bon, che nel frattempo si è ricostruita faticosamente una vita affettiva, riceve una telefonata. Hanno fermato un sospettato.

In che modo ha lavorato al suo libro?

Ho riletto i miei taccuini, poi ho cercato di rendere più precisamente possibile le sensazioni. Non ci sono parole in questo libro che non abbia esaminato, soppesato, da ogni angolazione. Trovarle giuste, quelle che non mentono, non rassegnarsi alla violenza e alla confusione, è stata dapprima la battaglia della mia vita e poi il progetto del libro. Volevo finalmente nominare l’indicibile. Ho lavorato molto sul ritmo, ho voluto prendere lettori e lettrici in un grande abbraccio, non volevo fossero voyeur né spettatori, bensì capaci di attraversare le parole. È stato come rispondere alla confusione con la precisione, alla negazione con l’esperienza.

Le meduse di cui lei scrive, insieme ai loro tentacoli, l’hanno abitata a lungo per poi trasformarsi…

Le meduse si avvicinano in silenzio, non le vediamo, è solo quando attaccano che le sentiamo. In questo senso, i sintomi associati al Disturbo Post Traumatico da Stress sono simili a loro. Ma sono anche magnifiche creature, e quando finalmente ho avuto la mia diagnosi ho smesso di credere di essere pazza, odiosa, violenta, i miei sintomi erano indizi di ciò che il mio aggressore mi aveva fatto subire. Mi hanno guidata e mi hanno permesso di recuperare il ricordo di tutto ciò che era accaduto quel giorno, sulle scale, quando avevo nove anni.

Qual è, per lei, il tempo della disperazione e della liberazione?

Direi che il tempo della disperazione è quello dell’essere stata calpestata, della vita arrestata che non avanza più verso la morte, come dice Rilke splendidamente. Un corpo violato è un corpo contaminato, colonizzato dall’odio di un altro. In uno stato inerziale, non del tutto morto, non del tutto vivo. Una vita a metà, al di fuori di sé stesse e nascosta. C’è una solitudine così grande che non si sa come nominarla. Il tempo della liberazione invece è stato per me quello di un movimento, di un inizio, di un passo dopo l’altro, di relazioni, di incontri. Queste due qualità del tempo hanno lottato dentro di me, per anni, facendomi oscillare e vacillare.

Persa, vuota, espropriata. La scrittura le ha consentito di entrare in contatto con se stessa?

Senza un percorso adeguato, terapeutico e relazionale, che sappia affrontare la specificità della violenza sessuale non ne sarei mai uscita. La scrittura non guarisce, ma ha altri poteri: per gran parte della mia vita non ho vissuto me stessa come un «io». Avevo la sensazione di avere molte identità distinte, di essere costantemente dispersa, frammentata in piccoli pezzi; non era pensabile, non era concepibile «io». Questo «io» è comparso nel corso della scrittura, penso che sia davvero attraverso di essa che «io» sia nato, in un certo modo. La scrittura mi ha radunata, riassemblata.

«La bambina sulla banchisa» configura anche la complessità delle relazioni famigliari, d’amore. In che modo ha potuto ordinare tutto questo nella forma letteraria?

Volevo mostrare come questa violenza sofferta avesse invaso ogni momento della mia vita, anno dopo anno, intaccato ciascuna delle mie relazioni, come mi avesse gradualmente distolto dal mio quotidiano, i miei desideri, dalla mia storia. Mi ha tenuto lontano dalla mia famiglia per molto tempo, mi ha spinto a fuggire l’amore di uomini sinceri. Volevo che questa sensazione di contagio fosse sensibile e palpabile nel ritmo della narrazione, nei rapporti con i miei cari, più sentiamo e più gradualmente la morsa si apre e il colloquio riprende.

Quale valore attribuisce al rapporto con le altre donne? In particolare, con chi ha vissuto violenza?

Le parole di altre donne vittime e la scoperta del pensiero femminista hanno anzitutto costruito la mia indignazione e la mia militanza. Sono queste donne che mi hanno dato il coraggio di scrivere ciò che non avevo mai osato dire. Mi hanno permesso di passare dall’intimità alla politica. Il mio libro a volte è molto crudo, ma non dice nulla sulla mia intimità, al riparo e altrove. Tra le vittime, c’è questo sapere comune: l’esperienza del male, della sua intenzionalità. È una cosa che non si dimentica, che non si ripara da sé, eppure è più lieve quando si incontra qualcuna che sa cosa hai affrontato. Ho davvero capito la parola «tenerezza» sperimentando la sorellanza.

«La vita non ti abbandona mai nel profondo degli oceani, nelle tenebre, ma risplende». Lo scrive in epilogo, cosa significa?

In ogni creatura, in ogni vivente, pulsa una luce inalienabile. Qualunque cosa facciamo, c’è uno spazio amorevole che nessuno può sporcare o distruggere. Quello spazio mi ha tenuto in vita dopo il mio incidente e ogni volta che volevo farla finita. Oggi, alla conclusione di questo lungo percorso fuori dall’ombra, sento un’immensa gratitudine.