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Ibn ’Arabi, il senso del sufi per il viaggio

Autore: Guido Caldiron
Testata: Il Manifesto
Data: 4 maggio 2019
URL: https://ilmanifesto.it/ibn-arabi-il-senso-del-sufi-per-il-viaggio/

«Ogni volta che accendo la lampada a cherosene, tiro fuori le mie carte e intingo la penna nel calamaio per poi posarla dove mi sono fermato la notte precedente, nel punto in cui l’inchiostro tocca la carta si spalanca una finestra da cui si affacciano le terre dell’Andalusia, i vicoli di Fès, le zawiya di Tunisi, le khanqah del Cairo, le stradine della Mecca, le botteghe di Baghdad, la Ghouta di Damasco e i laghi di Konya… Non so in quale punto della Terra mi trovi, ma non importa, giacché Dio ha rinsaldato il mio cuore con i quattro watad». È sulle montagne dell’Azerbaigian, nei primi anni del XIII secolo che il «sommo maestro» Muhyi-d-din Ibn ’Arabi scruta il proprio orizzonte certo che i «pilastri»che per i sufi proteggono i quattro angoli del mondo continueranno a guidare il suo cammino e a proteggerlo nel corso dei suoi viaggi. Filosofo, mistico, poeta, contemporaneo di Averroè - e, probabilmente, fonte d’ispirazione per Dante Alighieri -, nato nell’Andalusia araba e morto a Damasco nel 1240, considerato una figura centrale dell’esoterismo islamico – e per questo osteggiato dalle correnti più conservatrici dell’islam a cominciare dai wahhabiti -, la vita e l’opera di Ibn ’Arabi rivive ora nel romanzo dello scrittore saudita Mohammed Hasan Alwan, Una piccola morte (Edizioni e/o, pp. 550, euro 19,00), vincitore nel 2017 dell’International Prize for Arabic Fiction, il più prestigioso premio letterario dedicato alla letteratura di lingua araba.

Al centro del suo romanzo c’è la figura complessa, articolata e piena di sfaccettature di uno dei massimi maestri del sufismo, Ibn ’Arabi. Quale l’aspetto del personaggio che l’ha spinta a ripercorrerne le vicende?

Quando mi sono imbattuto per la prima volta nella figura di Ibn ’Arabi sono rimasto colpito dalla vastità dei suoi interessi e, allo stesso tempo, per il fatto che della sua storia sia arrivato fino a noi davvero molto poco. In assenza di un testo che ne ricostruisca la biografia in modo compiuto, ho cercato di mettere insieme i brandelli di storia che conosciamo per restituire la straordinaria vicenda di cui è stato protagonista e farla conoscere ai lettori di oggi. Ciò che mi ha colpito del personaggio, ancor più del suo profilo mistico, è l’importanza che i viaggi sembrano aver avuto nella sua vita. Malgrado né le sue condizioni economiche né le sue convinzioni politiche lo costringessero a spostarsi di frequente, continuò a viaggiare volontariamente da un posto all’altro per oltre metà della sua vita. Perciò mi sono chiesto quali riflessi tutto ciò avesse avuto su di lui, e in modo particolare da un punto di vista psicologico e spirituale. Il mio libro ha preso forma a partire da questo interrogativo.

Tra le massime di Ibn ’Arabi che introducono ogni capitolo ce n’è una che riassume il significato del viaggio come ricerca interiore: «Il viaggio è un ponte verso noi stessi». È questa la risposta cui è giunto anche lei alla fine del libro, compiendo un percorso analogo a quello del suo personaggio?

Credo che Ibn ’Arabi abbia intrapreso una sorta di viaggio parallelo verso se stesso con ogni miglio che ha percorso durante la sua esistenza. Il libro stesso può essere visto come un tentativo di far partecipare ogni singolo lettore a quei suoi viaggi. Non solo per scoprire luoghi e città diverse, ma per sperimentare come l’esposizione al mondo e l’essere in uno stato di costante movimento stimolano le nostre idee, sentimenti e opinioni. Oltre a sfidare i nostri stereotipi. Come diceva Ibn ’Arabi: «Quelli che smettono di viaggiare ristagnano. E quelli che ristagnano tornano al nulla». Per lui, l’esistenza era un viaggio.

L’idea del viaggio è al centro della struttura del romanzo e segue da un lato le tracce conosciute della vita di Ibn ’Arabi e dall’altro quelle di una figura parallela che gli somiglia, ma che attraversa i paesi come le epoche storiche. Quale lo scopo di questa doppia narrazione?

Nel romanzo, viaggiare non è solo un evento, ma è parte integrante della struttura narrativa principale. L’eroe, il protagonista diventa quasi un viaggio: per questo ho deciso di moltiplicare le sue occasioni, le sue possibilità di conoscenza. L’obiettivo era quello di raccontare due storie in parallelo: quella di Ibn ’Arabi immaginata da me fuori da un preciso contesto temporale e quella messa in scena nell’epoca storica in cui visse effettivamente il personaggio. Così facendo, speravo di far luce su come le nostre idee sulle figure storiche viaggiano nel tempo e sono costrette a misurarsi con i propri dettagli umani, contraddizioni e conflitti interiori simili a quelle di qualunque altro essere umano.

L’interesse per la dimensione mistica del sufismo sembra essere superato dalla visione di Ibn ’Arabi come un innovatore, si sarebbe portati a dire quasi una sorta di «ribelle». È così?

Quello che è chiaro e testimoniato anche dalle scarse tracce biografiche giunte fino a noi, è che intraprese un viaggio spirituale per vivere una vita diversa da quella che era stata tracciata per lui, mosso da una tumultuosa ansia esistenziale. Sono rimasto profondamente colpito dalla sua ribellione contro la struttura sociale in cui si muoveva, dal fatto che mise in discussione tutto ciò che aveva in nome di un sogno dai confini davvero molto vaghi. «Purifica il tuo cuore e seguilo», questo diceva e questo fece della sua stessa vita.

Il romanzo ci parla dei sentimenti religiosi e terreni di questo mistico, ma anche della storia del mondo islamico, da al-Andalus alla Siria odierna. Attraverso le epoche, il filo invisibile dell’amore e della sapienza si misura con i conflitti che si compiono nello stesso campo musulmano. La storia di Ibn ’Arabi ci dice qualcosa da questo punto di vista?

Si può guardare a Ibn ’Arabi come ad un prodotto della cultura islamica globale della sua epoca. Si è mosso all’interno dei confini di quel mondo e ha cercato di spingerli un po’ più in là, di aprire dei varchi. Osservare la sua vita, con i suoi alti e bassi, le cose in cui credeva e quelle su cui esprimeva dei dubbi, non può che aiutare implicitamente anche a far luce sulla cultura musulmana in quanto tale. Su come essa motiva o ostacola le persone. E su come le idee, all’interno di quello spazio culture, hanno un ciclo di vita che è dettato dalle condizioni storiche e dalle dinamiche sociali del momento.

Perciò, cosa resta oggi della lezione e della storia di un tale personaggio?

La tolleranza credo sia la lezione principale che si è lasciato alle spalle. Ma non è così facile come sembra. Anche per lui il raggiungimento di uno stato d’animo che aprisse alla tolleranza, all’incontro, richiese del tempo: anni di riflessione, per di più nel corso di un’epoca di guerre e conflitti durante la quale veniva praticata davvero poca tolleranza.

Figura spesso considerata «scomoda» nello stesso mondo musulmano, Ibn ’Arabi sembra aver influenzato però anche l’Occidente cristiano, a partire da Dante. Ha svolto davvero un ruolo di «ponte» tra le culture?

È difficile misurare l’influenza che l’opera di questo grande intellettuale può aver avuto sulla cultura occidentale. Il sufismo non è una filosofia facile, che si comprende immediatamente, ed anche all’interno delle società musulmane non è facile coglierne fino in fondo la forza e l’impatto. Per essere chiari, credo vada anche ricordato che lodare Ibn ’Arabi non significa necessariamente essere in grado di comprendere i suoi insegnamenti.

Prima di dedicarsi alla narrativa lei ha studiato i fenomeni migratori: i viaggi di Ibn ’Arabi ci parlano in qualche modo anche di questo?

Quello delle migrazioni è stato uno dei campi di ricerca in cui mi sono mosso durante gli studi di dottorato in Canada e al tema ho dedicato anche un libro, redatto però da una prospettiva accademica. Con Una piccola morte posso dire di aver intrecciato il mio interesse per temi prettamente narrativi con quelli di non-fiction a partire dalla dimensione del viaggio ma, in effetti, anche della migrazione. Del resto, non riesco a immaginare una scrittura che non abbia un qualche tipo di relazione con il presente e quanto accade intorno a noi. Anche la scrittura storica e futuristica è un tentativo di inquadrare il presente e comprenderlo nel contesto di ciò che è passato e di ciò che verrà. E anche il mio «incontro» con Ibn ’Arabi non sfugge a questa prospettiva.